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Moby Prince. Troppa «nebbia» nelle indagini: 140 morti ancora senza un perché

La storia del Moby Prince ha un posto nella buia galleria dei misteri d’Italia. Come Ustica. Come il caso Moro. Ventisette anni senza sapere perché. Perché centoquaranta morti e nessun colpevole. Bugie, omertà, insabbiamenti, errori. La Giustizia italiana quando vuole nascondere la verità ci riesce benissimo. Perizie sbrigative, testimoni chiave ignorati, interrogatori frettolosi, prove scomparse nel nulla, documenti mai cercati che sono tornati alla luce per il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta che, di fatto, ha riaperto il caso. O quanto meno ha riaperto la coscienza collettiva sul caso.

Mi viene in mente la morte del povero David Rossi, precipitato da una finestra del Monte di Paschi a Siena.  Il prezzo più alto pagato allo scandalo del Monte dei Paschi. Ora si capisce che l’inchiesta senese è stata una collezione di negligenze, probabilmente premeditate, di testimoni ignorati e di prove decisive scomparse nel nulla. Forse la faticosa mobilitazione contro il muro di gomma dell’istituzione, e a sostegno della famiglia, potrà far riaprire ancora una volta le indagini, rapidamente archiviate per nascondere sospetti scomodi che minimamente facessero pensare che non si era trattato di un banale suicidio.

Tutto questo non contribuisce a farci credere nella Giustizia, che dovremmo sentire un’alleata solida, se non infallibile, per la nostra serenità di cittadini. Invece non siamo per niente sereni. Perché siamo assediati dagli interrogativi che, badate bene, non chiamerei dietrologie ma autentici buchi neri, di una storia che non può avere incertezze, soprattutto per il rispetto delle centoquaranta vittime e dei loro familiari.

Entrare nel merito delle ipotesi su quello che è successo la notte del 10 aprile 1991 nel mare di Livorno, significa aprire scenari da film di spionaggio, che tuttavia rischiano di essere molto vicini alla realtà. Molteplici tesi che ripercorrono le inconfessate scie di misteri che ancora oggi avvolgono, in parallelo, il disastro del Dc9 di Ustica.

Quello che indigna di più, però, sono i tempi infinitamente lunghi e soprattutto i depistaggi grossolani, perfino goffi per dare una spiegazione preconfezionata e scontata, dunque non meritevole di essere approfondita. Da subito le autorità hanno cercato di sostenere la presenza della nebbia in quel tratto di mare nel momento dell’impatto fra il traghetto e la petroliera dell’Agip Abruzzo, quando era facilmente verificabile che la nebbia non c’era, elemento che oggi sta diventando addirittura un ingrediente di novità.

Fa sorridere amaro che ora si decida di cercare nelle acque del mare i pochi resti (che cosa può essere rimasto?) per provare quello che si poteva verificare con maggiore chiarezza, nei giorni successivi al disastro: cioè la localizzazione esatta delle due imbarcazioni. Ma forse era proprio quello che non si doveva scoprire, infatti i relitti furono spostati velocemente, come se si volesse confondere alla svelta la scena dell’incidente.

Il motivo? La petroliera non doveva trovarsi lì dov’era e dove la impattò il traghetto.

Che ci sia stato un traffico illegale di greggio dalla petroliera alla bettoline che si trovavano in rada; che i soccorsi siano arrivati in ritardo perché impegnati in una operazione della quale non si doveva sapere, sta di fatto che c’era qualcosa o tante cose da nascondere. Come per Ustica, come per la morte misteriosa di David Rossi, come per il delitto di Moro, come per la scomparsa di Emanuela Orlandi. Come per altri misteri mai chiariti che pesano sulla storia d’Italia. Tragedie inghiottite dalla fretta di archiviare come incidenti, che spariscono dai radar dell’informazione ma che con il tempo e con fatica si rileggono sotto una lente decisamente diversa, più vera e più inquietante.

Per restare a questi giorni e all’ultimo disastro nazionale, quello del treno deragliato a Pioltello la settimana scorsa: che cosa dobbiamo pensare dei quattro operai delle Ferrovie trovati a fare rilievi nell’area messa sotto sequestro? Dobbiamo credere che sia uno sbaglio perché il divieto non era ben segnalato? O dobbiamo insospettirci, visto che già si parla di «rattoppi in legno», non previsti dalla normativa tecnica, utilizzati sul binario che ha provocato il deragliamento? C’è un grande manto che spesso copre gli interessi più grandi ma soffoca il diritto del cittadino di sapere.

Le conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Moby Prince hanno smentito, di fatto, le sentenze di assoluzione già emesse nei processi di primo grado e d’appello. Che non sono riusciti a individuare colpevoli nemmeno nel comportamento della Capitaneria di porto di Livorno, che per negligenza o per altre ragioni  ignote, non si accorse  della gravità dell’incidente e del fatto che nello scontro con la petroliera, non era coinvolta una bettolina ma una nave passeggeri. Eppure dal porto di Livorno era partito, quella sera, solo il Moby Prince, dunque era evidente che poteva esserci il rischio che proprio il traghetto carico di persone potesse essere al centro dell’incidente.

Ma c’è un altro elemento inquietante che emerge dalle conclusioni della commissione d’inchiesta: cioè che la prima inchiesta sommaria su ciò che era accaduto, venne affidata alla Capitaneria, ossia a un ente direttamente coinvolto. In sostanza l’impianto accusatorio delle indagini e le responsabilità vennero orientate sul personale di guardia del Moby Prince che, a causa della nebbia (che non c’era) non aveva visto la petroliera.

La terribile conclusione che ci resta, ammesso che il disastro non potesse essere evitato, è che quasi certamente i passeggeri potevano essere salvati.

C’è un cumulo di dubbi e ombre che non può giacere negli archivi di un tribunale. E, pensiamo, nemmeno nella coscienza di chi determinò le sentenze di assoluzione collettiva. Ormai gli anni passati non contano, ma ritrovare la verità potrà essere almeno di conforto a chi ha già perso troppo in quel disastro.