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Mps, così il localismo ha rovinato la più antica banca del mondo

Dunque non siamo di fronte ad una nazionalizzazione, parola magica che troppi hanno pronunciato e continuano a pronunciare a cuor leggero. Ma si tratta, senza dubbio, di una svolta clamorosa non solo per la banca senese e per il sistema creditizio italiano, ma per la stessa Europa. È la prima volta, infatti, che si applicheranno le regole dell’Unione Bancaria Europea e ciò non può che accrescere l’attenzione su tutta la procedura da mettere in pratica.

Si è scritto molto sulla vicende che hanno investito il Monte da quando con la decisione di acquisire parte di Antonveneta nel novembre 2007 ha fronteggiato un mostruoso indebitamento e innescato una serie di mosse e contromosse tese a tamponare la crisi senza mai riuscire a produrre una convincente risalita.

La stessa Fondazione Monte dei Paschi, nata nel 1995, è stata trascinata in un gorgo che ha provocato un patologico assottigliamento patrimoniale. Lontani i tempi in cui si distribuivano annualmente consistenti sostegni per interventi culturali e progetti di ricerca. 

È doveroso chiedersi quali siano state le cause che hanno originato un tale disastro. Il Monte, banca di antica tradizione, la più antica del mondo tra quelle in attività, risale per via indiretta addirittura al Monte Pio messo in vita nel 1472 sull’onda di operazioni finalizzate ad alleviare le condizioni dei più indigenti. I Monti incarnarono la sollecitudine dell’osservanza francescana e furono i primi nuclei, se si vuole i progenitori, delle banche fondate successivamente.

Legato a filo doppio a Siena il Monte è stato un Istituto di credito di diritto pubblico fino al 1995 e come tale attivo entro un sistema blindato e governato in sostanza dalla Banca d’Italia con criteri ispirati a rigore e prudenza. La riforma Ciampi-Amato incentivò le fusioni necessarie in una situazione troppo frammentata e stimolò le trasformazioni in Società per azioni. Si voleva diminuire il tasso di partitizzazione clientelare, aprire le porte al dinamismo del «libero» mercato e prepararsi ad una globalizzazione invasiva e sconvolgente.

L’euforia che accompagnò tali propositi di modernizzazione non ha dato in Italia – e non solo – i frutti auspicati. E nel caso del Monte, anzi, l’interpretazione del disegno è stata tale da risolversi in un’amara sconfitta. Il Monte è stato un paradigma negativo. Per rispondere all’obiettivo di conquistare dimensioni più cospicue e competitive, dopo tanto vano tergiversare, acquistò senza le opportune verifiche una banca che invece di costare la già altissima cifra di 9 miliardi si rivelò appesantita da una massa di crediti inesigibili e altra zavorra sì da quasi raddoppiare quanto ipotizzato alla cieca. L’esplosione coeva della crisi mondiale contribuì a peggiorare rovinosamente le prospettive fantasticate.       

Con il pretesto o l’illusione di difendere la cosiddetta senesità si costrinse la Fondazione Mps a partecipare per mantenere nella banca una quota azionaria del 51% in mano «senese». Si ricorse a «derivati» che hanno reso ancor più tormentato il cammino.

Dietro questo esibito e populistico patriottismo si celava in realtà l’intento di conservare un potere che si sentiva minacciato. L’ideologia di un localismo anacronistico impedì coerenza e coraggio. A furbesche malversazioni e inaccettabili accorgimenti si accompagnò l’inerzia o la distrazione di chi avrebbe dovuto vigilare.

Si scopre poi che la massa dei crediti deteriorati si attesta sui 47 miliardi. Agli stress test europei emergono tutte le debolezze e non sempre per le vie ufficiali e con la tempestività necessaria. Neppure Fabrizio Viola e Alessandro Profumo, banchieri spediti a risanare le cose nel 2012, pur varando piani industriali drastici, riescono a tirar fuori dalla secche il Monte. 

La Bce, che a novembre 2014 sottopone il Monte ad un esame severo emette una sentenza allarmante. Nello stress test «adverse scenario» l’Eba individua Mps come la peggiore delle 51 banche sottoposte a esame. Si profilerà più tardi, di recente, addirittura un deficit di liquidità, che indurrà a non concedere la proroga al 20 gennaio 2017 per realizzare la ricapitalizzazione definita a luglio.

E siamo al presente. Ora lo Stato, assumendo una posizione maggioritaria, dovrà risanare la banca, concretizzando i punti fondamentali non ottenuti di un piano in partenza ambiziosissimo. E c’è da sperare che i risparmiatori e quanti hanno avuto fiducia nella «loro» banca non subiscano alcun danno, come si assicura solennemente.

Si aprirà per il Monte una nuova fase. Da quanto è accaduto emerge – monito chiarissimo e duro – come il dominio di sconsiderate manovre finanziarie possa distruggere enormi e gloriose ricchezze, se la politica non riesce a rinnovarsi selezionando un ceto dirigente all’altezza delle sfide e costruendo sistemi di governance fondati su un’etica che esalti l’autonoma responsabilità dei tecnici e una  lungimirante solidarietà sociale.