Opinioni & Commenti

Nuovi cittadini per una nuova classe politica

Tutti attendevano l’esito dell’appuntamento elettorale in Sicilia, considerato da sempre – e in questo momento d’incertezza più che mai – un test significativo per il futuro degli equilibri politici nazionali. E il test ha parlato più chiaro di quanto forse i partiti avrebbero desiderato: un astensionismo che ha raggiunto la soglia record del 52,58%, a cui va aggiunto il 18% dei voti dati dai siciliani al partito dell’anti-politica (primo nell’Isola), è stata la risposta degli elettori a una gestione sciagurata e irresponsabile della cosa pubblica non solo da parte dell’uno o dell’altro dei partiti siciliani, ma dell’intera classe politica, senza distinzioni.

Così Rosario Crocetta, il nuovo governatore (esponente peraltro di un partito che aveva sostenuto il vecchio, Raffele Lombardo, ora dimissionario perché inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa) si trova a dover raccogliere i cocci di una situazione compromessa, non solo finanziariamente (e già su questo piano la Sicilia è sull’orlo della catastrofe), ma soprattutto culturalmente ed eticamente. E a doverlo fare con il suo 30,5% dei voti, che però, esprimendo soltanto il 47,42% dei votanti, si riducono in sostanza a rappresentare non più del 15% del popolo siciliano. C’è poco da stare allegri.

E non solo in Sicilia. Dicevamo che si è trattato di un test che i precedenti della storia passata e gli scenari attuali fanno considerare una probabile anticipazione di quanto potrà accadere nelle prossime consultazioni a livello nazionale. Le premesse, purtroppo, ci sono tutte. Mai forse, nella storia della Repubblica, si era registrato un così grave scollamento tra l’ambiente dei politici e il Paese reale. Mai la disistima diffusa nei confronti dei primi da parte della gente era stata così grande. La sola analogia che può essere citata è quella della sconvolgente stagione di crisi che viene ricordata con  il nome di «tangentopoli».

Eppure una differenza tra le due situazioni storiche sussiste. Perché allora si videro personaggi del mondo politico additati al pubblico disprezzo perché avevano rubato alle casse dello Stato, in molti casi, per finanziare i loro partiti. Oggi gli scandali che hanno scosso da un capo all’altro lo schieramento politico riguardano persone che hanno rubato ai loro stessi partiti il denaro pubblico (cioè di tutti noi), per appropriarsene personalmente!

Ma non è soltanto un problema di soldi e di onestà personale. Veniamo da una situazione di emergenza finanziaria ed economica, la cui gravità è stata a lungo ignorata e perfino negata dalla maggioranza al governo. Quando poi i fatti hanno brutalmente strappato il velo con cui si cercava di coprirli, sia questa maggioranza che la stessa opposizione hanno dovuto riconoscere di non essere in grado di guidare il Paese verso una soluzione, e non hanno potuto fare altro che lasciare il timone del governo a tecnici non facenti parte del Parlamento.

Senza dire degli episodi di grave scorrettezza che, nell’ambito dello stesso Parlamento, avevano fatto parlare anche molti osservatori indipendenti di una inaudita compravendita di deputati e senatori, con disinvolti passaggi estemporanei da uno schieramento all’altro. Si aggiunga, in questo quadro scoraggiante,  la percezione diffusa nel Paese che in questo momento, in cui a tutti sono chiesti pesanti sacrifici, i più restii a farne siano proprio i rappresentanti del popolo, estremamente cauti nel tagliare, anche di poco, i costi legati ai loro privilegi.

Non ci inoltriamo nell’esame di ciò che le forze politiche dovrebbero ancora sentirsi in dovere di fare. Basta qui segnalare che il compito più importante rimasto nelle loro mani è la riforma di quella legge elettorale significativamente denominata «Porcellum» (il suo stesso estensore la definì, «a caldo», «una porcata»), e che proprio su questo da molti mesi l’opinione pubblica assiste a un indecoroso tira e molla, in cui si ha l’impressione che il problema sia costituito dal gioco degli interessi di partito.

C’è da meravigliarsi se questi seminatori di vento vedono con timore profilarsi, alle prossime elezioni, l’inevitabile tempesta che si sono meritati?

Eppure, questo tracollo può essere un punto di partenza. Esso ha il vantaggio di far cadere tutte le illusioni, di smascherare tutti gli alibi, e di evidenziare che ciò di cui il Paese ha assoluto bisogno non è un nuovo giro di valzer di alleanze, una nuova alchimia di formule elaborata dai soliti protagonisti, bensì un rinnovamento radicale delle persone e, più a monte, della mentalità, degli stili della politica. Solo così si potrà battere l’antipolitica, convogliando in una direzione positiva il comprensibile malessere di cui essa è espressione.

E questo rinnovamento non può che partire dal basso. Il dramma della Seconda Repubblica è stata la passività della gente, talora perfino la sua complicità. Per avere una nuova classe politica, degna di questo nome, è urgente formare nuovi cittadini. Non basta, per questo, la riforma elettorale: bisogna che cambi la mentalità degli elettori.Questo vale anche per i cattolici. Un eventuale partito che riunisse quei loro rappresentanti che, nei rispettivi schieramenti, hanno fatto così modesta prova in questi anni, non potrebbe certo presentarsi come una forza innovatrice. L’innovazione deve venire da una capillare educazione alla cittadinanza data ai credenti, e non solo nelle scuole di formazione politica – inevitabilmente riservate a un piccola minoranza –, ma nelle parrocchie, nella pastorale ordinaria, là dove il cristiano deve imparare, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, l’arte di esercitare la carità servendo il bene comune.

Solo da questa maturazione di un retroterra culturale ed etico, che il mondo cattolico meglio di chiunque altro, oggi, può favorire, scaturirà un futuro che non sia la triste riedizione del presente. È di questo futuro che i giovani hanno bisogno. Non solo per ritrovare la speranza di avere nella società un posto  che corrisponda ai loro sforzi  e ai loro sacrifici, ma per riacquistare la fiducia che il bene comune non è diventata una espressione vuota.