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Oltre lo scandalo del calcio, il pericolo dei grandi orecchi

di Giuseppe AnzaniIo ti parlo, tu mi ascolti; io mi confido a te, ti dico di me; ti dico cose che ad altri non direi e invece a te le dico perché siamo fra noi. Quel che ci diciamo è nostro e abbiamo diritto di saperlo solo noi; se altri sapesse, ascoltasse, diremmo cose diverse, e forse non diremmo nulla. La segretezza di quel che ci diciamo, è esattamente la libertà nostra di dire, di confidare, di comunicare; se siamo spiati, ascoltati, registrati, la nostra parola si spegne; il solo sospetto la uccide.

Ripenso al valore della comunicazione «inviolabile» – come dice la Costituzione – nei giorni in cui i giornali rovesciano sui lettori i testi tradotti delle intercettazioni telefoniche. Delle miserie del calcio non mi importa granchè: se c’è del marcio, se lo strappi di dosso per prima la giustizia sportiva, il suo ufficio investigativo, i suoi verdetti fulminei, le sue squalifiche.

Mi importa il metodo, generalizzato, che va contrassegnando come una routine l’indagine penale sull’intero fronte dell’accertamento dei reati. E capisco, capisco che in caccia di reati gravi (terrorismo, droga, mafia, delitti da ergastolo o da reclusione pesante) la giustizia possa origliare, e magari «debba» fare di necessità la sporca fatica. Ma che le intercettazioni sui soggetti indagati mettano in piazza poi le parole di infiniti altri soggetti non indagati e li risucchino nel tritacarne della gogna mediatica, questo non mi va, non mi par giusto.

Ognuno di noi, mediamente, ha un telefono e un telefonino. Ognuno di noi chiama dalla sua linea molte persone diverse, e riceve sulla sua linea le chiamate di molte altre persone diverse; basta che sull’una o sull’altra catena ci sia un numero intercettato per far sì che l’intera catena (chiamante o chiamata) sia bersaglio dell’ascolto intero. Incrociando i dati delle intercettazioni autorizzate nel decennio 1995-2004 col ventaglio di chiamate che ogni linea mediamente riceve o trasmette ad altri numeri telefonici, l’Eurispes ha pubblicato uno studio nel quale si stima in 30 milioni il numero di cittadini «ascoltati»; con un incremento vertiginoso negli ultimi anni (+ 128 per cento). Sembra l’immagine di un Grande Orecchio capace di non farsi sfuggire nemmeno un sospiro di ciò che ci confidiamo, e che va trasformando il libero villaggio globale della comunicazione potenziata nel villaggio controllato della comunicazione monitorata. È come passare dal sogno di un «Internet» alla realtà di un «Intercet». C’è qualcosa d’inquietante in questa deriva.

Non difendo per nulla il «non sapere» l’uno dell’altro, mi piacerebbe vivere in una civiltà della trasparenza, e mi è persino fastidiosa l’ossessione con la quale i teoremi della «privacy» vanno imponendo ai cittadini onesti gli scrupoli demenziali sulla raccolta di innocenti notizie gli uni sugli altri: per una associazione, per un convegno, persino per una gita.

Trovo sconcertante invece che il dogma della riservatezza frani in questo modo inversamente inglorioso quando si inalbera il bisogno di captare le parole segrete per prassi uniformata. Lo shock giuridico è se abbia ancora un senso la «facoltà di non rispondere» dell’imputato, che la legge processuale penale continua a dire di avere per cardine; lo shock etico è il coinvolgimento pre-testimoniale dei soggetti estranei, che il nodo telefonico può incatenare a vicende di cui non hanno neppure nozione.

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