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Papa in Myanmar e Bangladesh. Ha tracciato piste costruttive di speranza

A poche ore dalla conclusione del suo viaggio in Myanmar e Bangladesh, papa Francesco ha detto la parola fatidica: Rohingya. Tutti i media nel mondo l’aspettavano da giorni, per rendere più pesante la condanna contro le violenze dell’esercito birmano, per denunciare l’inanità della leader Aung San Suu Kyi, far sprofondare il Myanmar sotto il peso delle sanzioni. Il Pontefice però non l’ha gridata «sbattendo la porta in faccia», con rabbia: l’ha detta accarezzando i volti di uomini, donne e bambini a cui sono stati uccisi i familiari, o hanno dovuto fuggire braccati dai militari birmani. Il Papa ne ha incontrati 16, a Dhaka, e tutti loro hanno pregato e pianto con lui. «Dio – ha detto Francesco – è anche Rohingya».

Ed è anche vero che in Myanmar Francesco ha taciuto la parola ad effetto, usando però altre parole chiave: diritti di tutte le minoranze, cittadinanza a parte intera, bene comune, distribuzione della ricchezza, no alla violenza e alla vendetta.

Purtroppo, molti media, nell’attesa spasmodica di quel «lo dirà, non lo dirà», non sono riusciti a mostrare tutta la ricchezza del messaggio del Pontefice e le spinte che egli ha dato in questa regione del mondo insieme così ricca e così povera.

In questo modo egli ha collegato la sorte dei Rohingya a quella di tutte le altre minoranze (Kachin, Chin, Karen, Naga, Kaya…) che subiscono le stesse violenze, stupri, uccisioni dei Rohingya senza mai assurgere agli onori della cronaca.

I decenni di dittatura militare hanno creato ferite quasi insanabili, violenze e guerre, ma il Pontefice ha chiesto a tutti, anzitutto ai cristiani, di perdonare e lavorare per la riconciliazione per allontanare lo spettro di una guerra in cui tutti perdono.

Per questo Papa non è importante il tribunale mediatico o la condanna, ma tracciare delle piste costruttive di speranza. È per questo che in entrambi i Paesi, in Myanmar e Bangladesh, si è rivolto ai giovani per sostenere il loro entusiasmo e proporre un cammino di speranza nel futuro. I giovani che emigrano, che accettano lavoro come schiavi, o che imbracciano le armi, rischiano di vivere come disperati.

Francesco ha chiesto ai giovani cristiani di essere catalizzatori di speranza. Questo significa non rintanarsi più nel proprio gruppo etnico o religioso, nutrendo sospetto verso gli altri, ma aprirsi all’incontro, sostenuti dalla comune dignità di uomini.

La collaborazione fra religioni è l’altro pilastro di questo viaggio: con la maggioranza islamica in Bangladesh e con quella buddista in Myanmar è importante lavorare perché lo sviluppo economico in atto in questi due Paesi sia fondato sul mistero che c’è in ogni uomo, sulla dimensione religiosa e non solo sul profitto, lo sfruttamento della manodopera e dei bambini schiavi, ma abbia a cuore il bene comune.

Francesco ha voluto incontrarsi con i leader delle religioni sia in Myanmar che in Bangladesh e con loro ha condannato la violenza e il terrorismo che manipolano il nome di Dio, ma soprattutto ha spinto a impegnarsi insieme per una società al cui centro vi è l’uomo, a qualunque etnia appartenga, perché egli è a immagine di Dio.

Un’ultima parola sulle Chiese di questi due Paesi, piccole minoranze spesso nel ciclone della persecuzione. Il Papa ha elogiato i cristiani che, pur essendo un «granello di senape», danno ristoro alla popolazione e ai poveri in Bangladesh e Myanmar. La stima di cui i cristiani godono è dovuta anzitutto al loro servizio: scuole, ospedali, cooperative agricole e di lavoro. Ma in questo servizio, la gente scopre con meraviglia i motivi dell’amore di Cristo.

Non per nulla, sia in Bangladesh che in Myanmar la Chiesa cresce ogni anno, vi sono abbondanti vocazioni e queste piccole comunità inviano già missionari in altre terre.

E per la prima volta, in Myanmar e in Bangladesh, i cristiani delle diverse etnie si sono mostrati uniti e operosi insieme, suscitando l’ammirazione di buddisti e musulmani.

*direttore AsiaNews