Opinioni & Commenti

Quel filo diretto con la Natività

DI ANGIOLO ROSSISindaco di Pratovecchio È martedì 7 maggio. Ho appena parlato al telefono con Padre (Abuna in arabo) Ibrahim. Questo avviene quasi quotidianamente, perlomeno quando gli strumenti elettronici dell’esercito di Israele non lo impediscono.Ormai sappiamo tutto della Basilica della Natività, delle vicende, delle attese, delle delusioni e delle speranze di questi quaranta giorni. In questo momento, dopo segnali alterni, sembra che la situazioni si stia sbloccando davvero.Abuna Ibrahim è felice. Questa mattina, alle ore cinque e trenta, lo ha chiamato Arafat, poi ha telefonato il Cardinale Etchegaray; fuori l’esercito sta rimuovendo la gru dalla quale per tutte queste settimane i soldati si sono prodigati in una sorta di tiro al bersaglio uccidendo sei disgraziati che, allo stremo della fama, dentro la cinta del convento greco, nottetempo, raccoglievano erba ed arbusti per… mangiarne.

La si percepisce e la si vive la felicità di Abuna Ibrahim, come del resto quella degli altri francescani, delle suore, dei monaci armeni ed ortodossi della Natività.

Non è facile ripercorrere queste settimane di assedio; poi mi sono accorto che la potenza e la penetrazione di televisioni e giornali ha realmente prodotto un’overdose di informazioni, collegamenti, commenti, interviste: la gente sa davvero tutto supportata da uno spiegamento mediatico, quasi sempre discutibile ed opinabile nei contenuti e nella testimonianza della verità, ma comunque con pochi precedenti.Eppure in tutta questa vicenda i fatti, gli avvenimenti, le notizie, le situazioni di frequente hanno fatto dimenticare le persone. Abbiamo dimenticato i palestinesi, che hanno vissuto una condizione personale incredibile («tu non te ne rendi conto» mi ha spesso ripetuto Abuna Ibrahim) ed abbiamo spesso dimenticato le tre comunità religiose che hanno condiviso la mancanza di acqua, di pane, di elettricità, di tutto. Devo dire che in questo tempo talvolta ho provato anche dolore fisico nel pensare a Ibrahim che sento come un fratello ed a tutti coloro che stavano là dentro.Eppure anche in questa occasione è accaduto qualcosa di incredibile, di grande, che tutti coloro che sono stati in contatto con la Natività hanno avvertito; sono stati i Francescani a fare coraggio, a pronunciare sempre parole di pace anche nei momenti più critici: chi doveva essere consolato ha, invece, sempre rassicurato, chi doveva essere aiutato è sempre riuscito a dare grande grande fiducia agli altri, a noi.

Sin dai primi giorni al telefono chiedevamo notizie delle strutture che le Diocesi Toscane, la Cei ed altre realtà stanno edificando nelle immediate adiacenze della Basilica della Natività; eravamo molto preoccupati perché alla Tv di frequente le vedevamo avvolte nel fumo e nella polvere circondate dalle truppe di Israele.

Anch’io chiedevo insistentemente notizie finché Abuna Ibrahim, con grande tatto ma anche con molta decisione, mi ha detto «Non preoccuparti per le pietre: esse verranno rimesse al loro posto: preoccupiamoci, piuttosto, delle persone, delle sofferenze della gente che sta qua dentro; le persone non si ricostruiscono…».

Allora ho capito e sempre più spesso ho insistito su questo. Finché una sera di una ventina di giorni fa, dopo tanti tentativi di telefonare andati a vuoto, è stato lui a chiamarmi ed a dire che anche senza cibo, senza luce, senza acqua, i frati stavano bene… era la gente fuori che stava male: erano i bambini della sua scuola che non avevano niente, che vivevano di nulla, che gli avevano comunicato che le famiglie stavano soffrendo la fame ed ogni genere di privazione. «Pensate a loro, ditelo alla gente, chiedete un aiuto… quando tutto questo sarà finito dovrete essere voi a sfamarli, a dar loro per un periodo l’essenziale per vivere…».

Ecco, questo sono i Francescani della Custodia di Terrasanta, questo sono le Suore Minime del Sacro Cuore del Convento della Natività.

Qualche giornale ha parlato di testimonianza eroica dei frati e delle suore, ma non è vero. Hanno semplicemente fatto una cosa normale. La loro è stata nient’altro che una testimonianza di normale missione in una situazione che tutto è stata fuori che normale ed ordinaria.In altre parole, ciò che a noi è sembrato grande e straordinario, per loro è stata quotidianità spesa come sempre per gli altri che erano con loro, con il pensiero e la tensione rivolta alla gente di Betlemme e della Palestina.Così è stato anche per Abuna Ibrahim «il frate di Gesù Bambino» (come lo abbiamo sempre affettuosamente chiamato in qualità di custode della Basilica), il quale Gesù Bambino, non sembri strano, mai è stato da lui custodito con amore e con tenerezza più grande che in questo tempo di intifada e di guerra.

In questo momento, nonostante i segnali positivi di cui abbiamo detto, Padre Ibrahim ed i confratelli, le suore, i monaci greci ed armeni sono sempre là dentro. Ci sono addirittura nuove e più gravi difficoltà.

Fuori gli uomini cercano affannosamente di rimettere insieme i «cocci» di questa tragedia dei nostri giorni cercando (almeno dicono) le vie della pace, dell’intesa, della convivenza tra i due popoli.

Tutti hanno ricette, si prodigano nel pensare strategie, nell’arte della diplomazia, fanno a gara per proporre, mediare, prospettare soluzioni. Non sanno, o forse sanno fin troppo bene, che nel lungo periodo tutto potrebbe essere inutile.

Ecco, in questa storia che si ripete, oggi abbiamo scoperto che non occorrono solo i grandi (si fa per dire) della terra per fare la pace. La via della pace passa soprattutto dalla semplicità, dalla forza, dalla pazienza, dalla sapienza di Abuna Ibrahim e dei suoi frati. Loro la pace l’hanno già fatta, con le proprie mani e con il proprio cuore; sta agli altri capirlo.