Opinioni & Commenti

Quella profonda frattura tra Paese legale e Paese reale

di Romanello Cantini

Circa venti anni fa, il 16 marzo 1993, il leghista Luca Leoni Orsenigo, un nome da doge e un gesto da boia di Cinecittà, srotolò un cappio sui banchi di Montecitorio fra gli applausi e gli sghignazzi dei suoi compagni di partito. Quell’esibizione clamorosa che prometteva la forca per i «ladri» di Tangentopoli non poteva non essere ricordata da tutti i giornali in questi giorni in cui la magistratura sembra convinta che non solo i ricchi piangono, ma anche i leghisti «rubano». E tuttavia per l’immagine che il partito di Bossi in venti anni ha cercato di costruire di sé un leghista «che ruba» è un po’ come una rana che nuota a stile libero.

La Lega, prima ancora che come il partito del Nord contro il partito del Sud, ha sempre voluto presentarsi come il partito delle guardie contro i ladri. Si odiava Roma non perché era Roma, ma perché era «ladrona». Si voleva la fine dei vecchi politici non perché erano incapaci, ma perché erano corrotti. Come si scriveva sui muri di Milano: «Si scrive leader, ma si pronuncia lader (ladro ndr)». Bossi chiedeva allora l’abolizione dei contributi ai partiti, la confisca dei loro beni. E in questa campagna fu preso sul serio più di quanto non si ricordi. Anche persone senza la cravatta verde, come Giorgio Bocca e Indro Montanelli, dichiararono di aver votato per la Lega.

E nel 1994 persino Barbara Palombelli si domandava su «La Repubblica» se Bossi non fosse «l’ultimo e l’unico Savonarola a disposizione della politica italiana». Certo col tempo Bossi aveva finito per assomigliare più che al grande moralizzatore fiorentino alla più antica maschera italiana, al Miles Gloriosus che dice di aver vinto anche quando ha perso, allo spaccone da Bar Sport per cui tutti gli altri sono solo pirla, al cane da pagliaio che abbaia e non morde anche quando, stando per anni al governo, teoricamente non gli erano mancati i denti.

Ma comunque fino a un mese fa non era mai accaduto che lo sceriffo fosse colto in un pollaio a rubare galline. Già nell’agosto 1991 Bossi minacciava lo sciopero fiscale. Così aggiungeva «finiranno di prenderci i soldi per darli alla mafia». Per chi si è esposto a tal punto non è certo cosa di poco conto venire a sapere oggi che proprio i soldi della Lega forse sono andati  alla ‘ndrangheta. Forse, rispetto a quello che è successo nella ex-Margherita, nella Lega si è arraffato di meno, ma si è arraffato peggio. Si è abusato dei soldi dello stato con la grettezza dello spilorcio più che con l’avidità dell’affarista. Si dice che il senatur si è rifatto i denti con i soldi del partito, e che il «Trota» con i rimborso elettorali ha rimborsato le sue multe. Se Lusi, l’amministratore della ex-Margherita, sembra che con i fondi elettorali si sia  ha comprato diversi appartamenti, i Bossi sembra che con gli stessi fondi si siano rifatti anche e appena il pavimento di casa.

Ma al di là dei singoli episodi, c’è ormai, su un tema divenuto centrale per il nostro Stato e la nostra società civile, una frattura profonda come la faglia di un continente fra Paese legale e Paese reale. Non c è, forse con l’eccezione dell’Italia dei Valori, fra il novanta per cento dei restanti partiti nessuno che voglia rinunciare al finanziamento pubblico. Non c’è, fra la gente, forse qualcosa di più del dieci per cento degli italiani che lo voglia ancora concedere.

Nel 1974 fu votato il primo finanziamento ai partiti: 45 miliardi all’anno. Sei anni dopo il finanziamento fu portato a 73 miliardi. Nel 1981 fu ritoccato ancora a 83 miliardi. Nel 1978, quando si tenne il primo referendum sul finanziamento ai partiti, perfino Alberto Moravia volle fare la predica agli elettori: «O il finanziamento pubblico o la corruzione». Di lì a poco Tangentopoli avrebbe dimostrato invece che l’Italia aveva l’uno e l’altra.

E dopo un referendum del 1993 con cui gli italiani dissero no ai soldi dello stato ai partiti con una maggioranza bulgara ci voleva coraggio a chiedere ancora il finanziamento pubblico. Così, dopo il crollo della prima repubblica, si decise di cambiare nome al finanziamento pubblico allo stesso modo con cui, dopo il crollo del fascismo, si ribattezzò Mario chi fino ad allora si era chiamato Benito: d’ora in avanti il finanziamento pubblico si sarebbe chiamato «rimborso elettorale». Con una nuova legge i partiti si presero 57  miliardi di rimborsi elettorali per le regionali del 1995 e 97 miliardi per le elezioni regionali e politiche del 1996. Anche se, dopo l’abolizione delle preferenze, almeno teoricamente dovevano essere scomparse le campagne elettorali personali che, come era apparso chiaro durante Tangentopoli, erano quelle che più avevano gonfiato il costo della politica.

All’inizio del Duemila il rimborso elettorale si moltiplicò per dieci in un colpo solo. Dopo aver stabilito un rimborso di 5 euro ad elettore i partiti hanno incassato 476 milioni di euro alle politiche del 2001, 499 milioni di euro alle politiche del 2006 e infine 503 milioni di euro (mille miliardi di lire) alla ultima tornata elettorale del 2008. In un anno senza elezioni come il 2010 i partiti si prendono 289 milioni di euro. Alla fine ha avuto ragione il dimenticato professor Ernesto Rossi, il vecchio azionista liberalsocialista, che già più di mezzo secolo ce l’aveva detto: «Lo Stato potrà pagare le spese dei partiti, ma non sazierà mai la loro fame». È chiaro infatti che maggiori risorse vogliono dire sempre nuovi strumenti di lotta politica e, senza una regolamentazione, come in guerra, ogni arma nuova del nemico diventa subito una necessità inevitabile per tutti.

Se oggi il povero Gioberti potesse aggiornare con una nuova edizione il suo libro sui primati degli italiani potrebbe senza dubbio aggiungere che oggi gli italiani sono  primi nel mondo soprattutto per due cose: per gli stipendi dei loro parlamentari e per le centinaia di milioni che danno ai loro partiti. In Germania i partiti non ottengono dallo stato più di 133 milioni di euro all’anno. In Spagna non più di 130 milioni. In Gran Bretagna nemmeno 20 milioni. In Francia alle ultime elezioni presidenziali del 2007 Nicolas Sarkozy ha speso 16 milioni di euro al primo turno e 20 milioni di euro al secondo turno come del resto la sua avversaria Ségolène Royal. Negli Stati Uniti gli esperti hanno calcolato che nel 2008, per entrare alla Casa Bianca, Barack Obama ha speso  500 miliardi di dollari, quasi tutti però arrivati da privati.

Nella primavera del 1944 Luigi Sturzo festeggiò a New York il suo cinquantesimo anno di sacerdozio. Trasformò in liquido i regali che aveva ricevuto per l’occasione e inviò un vaglia di 2.000 dollari a Antonio Rodinò e un altro di 1.500 dollari ad Alcide De Gasperi. L’una e l’altra offerta del fondatore del partito popolare dovevano servire a finanziare la Democrazia Cristiana che stava nascendo. Né Sturzo, né De Gasperi credevano nel finanziamento pubblico dei partiti. In una società più povera, ma anche più generosa dei propri mezzi e del proprio tempo e quando ancora capitava nelle sezioni qualche anormale che credeva ancora nella politica come servizio, i due padri del cattolicesimo democratico pensavano che un partito doveva essere  reso efficiente ed autosufficiente con la mente, le braccia, le gambe e le tasche dei suoi soci e dai suoi simpatizzanti. E proprio oggi, quando si affaccia di nuovo l’ipotesi di un finanziamento di questo tipo, per esempio sulla base del  5 per mille dell’Irpef, bisogna non scordarsi che, perfino per essere pagati così, i partiti devono essere, o perlomeno apparire, parsimoniosi, trasparenti ed onesti. Purtroppo, dopo quello che è successo nella ex-Margherita e nella Lega, oggi i partiti attraggono fondi come un’associazione per la ricerca sul cancro che sia sospettata di spendere i soldi che gli arrivano in  sigarette. Ora bisognerebbe, questi partiti, come minimo lavarli e stropicciarli bene con la candeggina di alcuni gesti simbolici, come la rinunzia ai prossimi rimborsi, perché la gente non giri loro sempre più al largo.