Opinioni & Commenti

Registri delle unioni gay: dai Comuni un attacco alla cultura della legalità

Rileggo gli argomenti di quei personaggi, anche vecchi e famosi, che ci spiegano con qualche sussiego perché i matrimoni fra gay, celebrati in altri Stati, possono essere trascritti nei registri italiani, perché «se sono validi là devono essere validi anche qua», e dunque facciamola finita col provincialismo e adeguiamoci ai tempi e al diritto «globalizzato». Li rileggo proprio nel giorno in cui il mondo globalizza l’attenzione sulla condizione delle bambine nel mondo e l’Unicef ne promuove la «Giornata internazionale», e le cronache dei quotidiani mettono in prima pagina anche le storie tragiche delle bambine-spose (promesse, cedute, barattate) a 13 anni, e anche a meno. Ve la sentireste di trascrivere in Italia i matrimoni di 14 milioni (tanti ne stima Terre des Hommes) di minorenni costrette a sposarsi, perché sono sposate secondo la loro legge locale?

Si dirà che il paragone è diverso. Certo, è diverso, però allora non dite che la ragione di una regola italiana sta nell’imitazione di una regola straniera. Dipende da quale regola, dipende dal contenuto, non dalla provenienza.

Rileggo ancora le difese d’ufficio che gli stessi giuristi vecchi e famosi fanno per i sindaci che hanno trascritto i matrimoni gay nei registri dello stato civile, perché i sindaci, secondo loro, in questo caso sentirebbero «le esigenze giuridiche della prossimità ai cittadini»; e non si accorgono che la sfida all’ordine giuridico – ancor dopo l’intervento del ministro dell’interno – è proprio un bell’esempio educativo, in tempi in cui si cerca di insegnare la «cultura della legalità» agli alunni delle scuole. Se è questo il rispetto della legalità da parte delle autorità che ne rivestono la funzione, e dovrebbero esserne custodi e sentinelle, mi pare che si imbocchi la china di una legalizzata anarchia.

Si dirà che le coppie gay hanno fretta e non possono aspettare una legge, che tarda a venire. Ma se hanno fretta di essere considerate all’identica stregua di marito e moglie, con identici diritti e doveri scaturenti dal matrimonio, penso che si tratti di una vana attesa, perché l’essenza del rapporto sponsale, della generazione e della famiglia, non può essere pareggiata per finta. Si faccia pure l’elenco dei diritti specifici che si posson regolare (in campo assistenziale, per esempio) e si trovino regole acconce; ma il matrimonio resta altra inconfondibile cosa. Resta altra cosa nella Costituzione, e prima che in essa nella natura umana. Niente forzature, dunque. È vero che in un episodio, a Grosseto, la trascrizione è stata ordinata da un giudice, ma la Corte d’appello, proprio nei giorni scorsi, ha cancellato l’errore e rimesso i puntini sulle i.

Vien da riflettere sulla pressione che vien fatta a getto continuo sull’opinione pubblica, che ammicca in modo obliquo ad una sorta di «equivalenza» d’ogni rapporto che si scelga o si adotti; senza badare che smantellando l’identità di ciò che compone la società (la famiglia seminarium rei publicae) si rischia di decomporne in radice la fisionomia. È una pressione che può far perdere la bussola, e far nascere persino dal bozzolo libertario il verme della violenza; come in modo inquietante hanno rivelato le aggressioni alle «sentinelle in piedi», gli insulti e le botte a chi, inerme e silenzioso, manifestava in pace la libertà di pensare e di amare la famiglia e la vita e la loro inimitabile relazione.