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Reyhaneh impiccata: alla forca opponiamo il cuore in ascolto

La notizia di Reyhaneh, giustiziata barbaramente, non può che indurre a tristezza per il fondo toccato da persone che avrebbero dovuto garantire giustizia. Indubbiamente il diritto iraniano conosce la sua prassi ma, a quanto è dato di sapere, il processo si è dimostrato una farsa, una giostra di argomenti insostenibili, un tutto dominato da pregiudizi pseudo-religiosi.

Se si considera, da donne, la ricaduta di sofferenza di uno stupro o di un tentato stupro, non ci si può che indignare contro chi non riconosce la legittima difesa dinanzi ad un gesto di violazione così grave e irrimediabile. La donna, nella sua femminilità, nel suo sentire, nel suo collaborare alla vita della società, è stata, una volta di più, negata nella sua libera scelta.

Anche lasciando agli esperti di diritto internazionale di pronunciarsi sulla legittimità del processo e ancor più sulla legittimità dell’esecuzione, monta la preoccupazione per la strada, nettamente in discesa nella scala dei valori.

La testimonianza della giovane iraniana, emancipata e lavoratrice, nel corso dell’ultima telefonata con la propria madre, apre uno spiraglio che, probabilmente, è l’unico che ci consenta di sopravvivere e di poter pensare ad un’umanità che collabori e viva insieme, senza dover ricorrere solo a difendersi e a prepararsi per una guerra.

Al «diyeh», il prezzo del sangue, cioè il «conto» che il condannato deve pagare alla famiglia della vittima in risarcimento della morte per giungere ad una sorta di patteggiamento, che avrebbe modificato la sentenza da pena capitale a detenzione, noi cristiani opponiamo nelle tenebre questo spiraglio e vogliamo percorrerlo. La certezza di «ritrovarsi lassù insieme» non cancella il percorso della giustizia, non annulla l’interrogarsi obiettivo e dimostrato sulla realtà dei fatti.

La preghiera è la nostra risposta, non intesa come esorcismo, talismano, o ottundimento della ragione a favore di una giustizia celeste che salderebbe in parità i conti, ma come una postura profonda che imprime al vivere un moto altro.

Alla forca opponiamo il cuore in ascolto dell’Altissimo, con qualsiasi denominazione lo si chiami (per noi cristiani il Padre del Signore Gesù), al Suo gesto creatore che continua a creare e a chiedere libera risposta.

Non ci resta altro, dopo aver mobilitato tutte le voci autorevoli della nostra società, dopo aver chiamato in causa Francesco, vescovo di Roma, perché la vita fosse rispettata. Siamo ad una svolta.

Nella mancanza di rispetto per l’autodifesa, per la parola inascoltata di una donna offesa, per le voci di numerose associazioni che si sono prodigate, manifestiamo un grande e lungo silenzio che non significa obliterazione, nascondimento ma elevazione del grido muto all’Altissimo.

Egli ascolta ma chiede che venga mutato il cuore, chiede che, nell’assoluta libertà, le persone si guardino con occhi diversi e la violenza che impera venga sbriciolata, resa innocua e la sua forza diventi costruttiva.

I musulmani pregano, si prostrano visibilmente nel corso della giornata. Noi cristiani preghiamo, ci inchiniamo dinanzi a Dio, alla Sua Presenza eucaristica nella storia.

Credenti di ogni religione, di ogni credo, nella cocente lacerazione inflitta a tutti con questa esecuzione, reagiscono con un grido che implora aiuto perché un nuovo fiotto di educazione, di attenzione, percorra menti e cuori.

Si deve creare una rete di solidarietà reciproca, mutua, che ci affratelli nello slancio profondo verso la Luce che sconfigge le nebbie delle tenebre.

Non abbiamo scampo: le più autorevoli voci internazionali della nostra società hanno espresso appelli, richiami, suppliche. Tutti inascoltati. Tutti falliti.

Il rullo del tamburo che annuncia la morte si è fatto sempre più incalzante, insistente, impermeabile ad ogni sollecitazione.

Una giovane vita è stata brutalmente spenta ma la battaglia contro la pena di morte deve farne un trampolino di lancio, deve arrivare a conquistare tutti.

Lo chiediamo tutti al Creatore di tutti con cuore orante.