Opinioni & Commenti

Riflessioni intorno a una legge che non è solo «sul fine vita»

La legge approvata recentemente dal Parlamento è comunemente chiamata «sul fine vita»: in realtà essa non è riferita soltanto ai casi, drammatici, di persone affette da patologie con esito infausto certo, ma riguarda – al di là del titolo in questo fuorviante – ogni tipo di prestazione sanitaria. In essa si ribadisce infatti il principio del consenso informato, che è costituito da due parti: da un lato, il diritto di ciascuno di essere informato adeguatamente circa le proprie condizioni di salute nonché con riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefìci e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari. Diritto cui corrisponde, come è evidente, il dovere del personale sanitario di fornire tali informazioni.

D’altro canto, però, all’informazione deve seguire il consenso, che la legge così stabilisce: «Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso». Ciò significa, come è evidente, che se una persona necessita di un trattamento sanitario, magari per sopravvivere a un evento patologico, e per qualsiasi ragione non intenda accettarlo, essa ha il diritto di rifiutarlo, ancorché questo rifiuto possa determinarne la morte. E che, di conseguenza, il medico o il personale sanitario non potranno intervenire, ma dovranno lasciare morire il paziente. Ciò potrà avvenire non soltanto, dunque, nel caso di malattie terminali o dall’esito segnato: ma – per fare un esempio – anche nell’ipotesi in cui sia necessaria una trasfusione di sangue e l’interessato non intenda consentire ad essa. Se questo è il disposto legislativo, sia consentito svolgere qualche considerazione iniziale.

In primo luogo, e si ribadisce, quanto si è detto non riguarda soltanto il «fine vita», a meno di non voler intendere con questo termine ogni evento che possa provocare la morte: ma nel linguaggio comune, come a tutti noto, con quell’espressione si fa riferimento alle circostanze in cui si produce il cosiddetto accanimento terapeutico. E a tale ultima accezione faceva riferimento Papa Francesco nel suo recente messaggio inviato al Meeting regionale europeo della World medical association, in cui il Santo Padre affermava che «non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte».

In secondo luogo, la previsione legislativa ribadisce un principio già presente da tempo nel nostro ordinamento giuridico: già una decina di anni fa, infatti, la Corte costituzionale (con la sentenza n. 438/2008) affermava che «la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione».

Dunque, con il riconoscimento del consenso informato come diritto costituzionalmente garantito il diritto alla salute è considerato parte del più generale diritto all’autodeterminazione della persona: la scelta del trattamento sanitario è perciò sempre rimessa al paziente, e rispetto a tale scelta il ruolo del medico è servente e strumentale, perché il bene che mediante tale relazione viene tutelato è un bene disponibile soltanto da parte dell’interessato, e non da parte di terzi. Ci si potrà interrogare sul significato etico di tali affermazioni, e sulle prospettive che esse aprono: anzi l’auspicio è che ciò avvenga, se possibile fuori da ideologismi o da barricate politiche mirate soltanto a ottenere consenso con slogan ad effetto.

Ed invece ci si dovrebbe seriamente confrontare sulle questioni di fondo che questi temi pongono sul futuro dell’uomo e dell’umanità: quale rapporto tra scienza medica e diritto alla salute? Quale idea di libertà della persona e di tutela della salute? Come riconfigurare l’attività del medico e la sua relazione con il paziente?

È l’ora che le grandi questioni della bioetica cessino di essere «la continuazione della politica con altri mezzi» (come la guerra secondo Karl von Clausewitz), e diventino invece uno dei temi sui quali interrogarci sul destino dell’umanità.

La legge sul «fine vita» (che tale non è) potrebbe essere l’occasione per cominciare a percorrere questo cammino di ricerca.