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Se le Olimpiadi del freddo favoriscono il disgelo

I coreani del Nord ai giochi olimpici invernali della Corea del sud. Il presidente sudcoreano che per primo chiede di sospendere le sanzioni perché i nordcoreani possano entrare in Corea del Sud. I giovani di due paesi in guerra da settanta anni con la stessa maglietta bianca e azzurra. Una sola squadra dietro la bandiera della Corea unificata: la penisola intera di colore blu in campo bianco. I giornalisti non sapevano come raccontarla questa storia delle olimpiadi di Pyeongchang tutta da seguire a bocca aperta e da guardare stropicciandosi gli occhi in questa sorta di strepitoso giardino di inverno con fiori mai visti. Il tutto è stato un campionario di sorprese e di contraddizioni. Roba da fare esplodere gli ossimori, le figure retoriche che mettono insieme gli opposti: disgelo sulla neve, primavera d’inverno, pace in guerra.

Da settanta anni Corea del Nord e Corea del Sud evitano persino di toccarsi con una frontiera. Si separano con l’intercapedine profilattica di una zona smilitarizzata larga quattro chilometri e chiusa da fili spinati, cavalli di Frisia e fossati. Ancora poche settimane fa esibizione di carri armati, scie di portaerei e di torpediniere in manovre militari, parabole di missili in navigazione dalla Corea del Nord al mare del Giappone, gara fra chi ha il bottone atomico più grosso fra Kim Jong-un e Trump. E ora ecco che ai giochi si mette da parte l’inno ufficiale sudcoreano e si esegue Ariang, l’inno popolare che mette d’accordo Nord e Sud e che, non certo del tutto a caso, dice nel suo ritornello: «Proviamo a superare il passo montano, orsù, proviamo a camminare insieme tendendoci per mano». Poi ecco all’improvviso in tribuna d’onore il presidente sud coreano Mom Jae-in che stringe la mano a Kim Yo-jong, l’algida ed enigmatica sorella del dittatore coreano. E infine tutti a cena insieme con alla fine una torta di cioccolato a forma di penisola coreana su cui i commensali sono invitati a spargere sopra la crema gialla che copre di un solo colore Nord e Sud. Per chiudere arriva l’invito di Kim Jong-un a Moon a ricambiare la visita in casa sua come vuole il galateo delle persone perbene di una volta.

Si dice che lo sport porta la pace e la fraternità. Spesso purtroppo si è trattato di retorica. De Coubertin, l’inventore delle Olimpiadi, passava per cosmopolita, ma non voleva che le donne partecipassero ai giochi. Durante la Grande Guerra non furono le olimpiadi a far cessare la guerra, ma fu la guerra a fare cancellare le Olimpiadi del 1916. Nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino Hilter riuscì a tenerne fuori gli atleti ebrei. Durante la guerra fredda le Olimpiadi erano luogo di propaganda politica per cui gli atleti russi e americani avevano soprattutto l’ordine di vincere gli uni sugli altri. Nel 1956 ai giochi di Melbourne, all’indomani della rivolta di Budapest, una partita di pallanuoto fra russi ed ungheresi si trasformò in un corpo a corpo che tinse l’acqua di sangue. E lasciamo pure stare la famigerata partita d calcio che cinquanta anni fa diventò una vera e propria guerra fra Honduras e El Salvador.

Però è anche vero che lo sport altrettanto spesso aiuta. Anzi talvolta riesce a fare cose che non sono riusciti a fare diecine di congressi internazionali e centinaia di diplomatici. Basta ricordare la famosa partita di ping pong che nel 1971 aprì la via alla apertura delle relazioni diplomatiche fra Pechino e Washington. All’inizio si trattò solo di una partita di tennis da tavolo fra il campione cinese Chuang Tse-tung e il campione americano Glenn Cown che ruppe il ghiaccio regalando al suo avversario una bandiera con il simbolo della pace e una maglietta con il titolo della canzone dei Beatles «Let it be», cioè «lascia che sia» o, se vogliamo, «sopporta, perdona». Pochi mesi dopo la Cina era riconosciuta da tutti i paesi del mondo rompendo uno stato d’assedio che durava da un quarto di secolo.

La scelta del dialogo che ha fatto il presidente sudcoreano non è certo priva di rischi. Fra questi quello di fare il gioco di Kim e di perdere il sostegno del grande alleato americano la cui irritazione è già sempre più evidente. Ma Moom ha dovuto pure constatare che anche le maniere forti non portano lontano. Anzi possono portare addirittura troppo lontano verso il disastro. Il regime nordcoreano ha ormai dimostrato di non essere una tigre di carta. Per quel durissimo cemento che soprattutto in Asia è prodotto dalla miscela di nazionalismo e di comunismo il regime nordcoreano è sopravvissuto ad una guerra costata tre milioni di morti, ad una guerra fredda durata quarant’anni, al crollo dell’Unione Sovietica, all’imborghesimento della Cina, alla carestia con seicentomila morti di dieci anni fa. Nemmeno le sanzioni sembrano fargli troppo male perché sono alleggerite dal contrabbando, dalla Cina che non vuole che la fame in Corea del Nord si trasformi in una invasione di profughi ai suoi confini, dal fatto – orribile a dirsi, ma vero – che un armamento atomico ormai costa meno di un armamento convenzionale. D’altra parte ogni tentativo militare avrebbe per prima vittima la Corea del Sud. Moon ha deciso quindi di privilegiare la pace mettendo per il momento da parte la richiesta di disarmo atomico del Nord e di giocare perfino sul sogno nazionalistico di una sorta di vaga riunificazione per trovare un terreno minimo di coesistenza se non di intesa.

Il risultato finale non è scontato, anche se i primi vantaggi appaiono già evidenti. In ogni caso è più facile che il regime nordcoreano alla fine si apra con la modernizzazione economica, che con il digiuno voluto dalle sanzioni. Successe già una volta in quella che era l’Unione sovietica.