Opinioni & Commenti

Silvano Piovanelli, il vescovo parroco

Era capace di gesti di riconciliazione con settori della Chiesa passati per la contestazione: altro raro carisma. Ha versato olio sulle ferite della Chiesa fiorentina e mai ne ha provocate. Pioniere del lavoro collegiale, ha sempre preferito mandare altri alla ribalta, anche quando fu chiamato a vestire di porpora.

Non ha avuto ruoli fuori di Firenze ma aveva antenne per il mondo e ne importava il miele per la sua gente. Non ambiva a missioni nazionali o internazionali ed era debole nel comando: sapiente, certo, ma troppo rispettoso verso ognuno. Anche questo lo possiamo dire senza sminuirlo.

«Mi sembrava un’avventura così enorme: diventare padre in una famiglia dov’ero stato figlio e fratello»: così commentò la chiamata ad arcivescovo della città nella quale ha sempre vissuto e alla quale ha dedicato tutte le sue «umanissime predicazioni», come le chiamava Mario Luzi che gli fu amico.

Non si montava la testa, neanche nei ruoli per i quali tutti lo amavamo. Affrontava ogni argomento in «atteggiamento di modestia», come amava dire, ma non aveva paura a dire la sua. Riuscì a essere garbatamente critico anche del Giubileo dell’anno duemila, cioè verso il volitivo Papa Wojtyla: «Qualche volta lo spettacolo può aver preso il sopravvento».

Amava viaggiare il mondo, il cardinale parroco: Terra Santa e Turchia, Bangladesh, Kosovo, Nigeria, Uganda. Aveva appreso dal cardinale Benelli, che l’aveva scelto come primo collaboratore, a tenere d’occhio il mondo. E sapeva essere amico di tutti, a partire dagli immigrati e da ogni svantaggiato.

Voleva che la sua Chiesa – che ascoltò con intelletto d’amore per 18 anni – aiutasse ad avere fiducia nel futuro. Ma quando il comune di Firenze organizzò nel 1998 una mostra di disegni di Tanino Liberatore, certe immagini del quale gli parevano «pornografia», seppe protestare: «Chiediamo il rispetto della nostra dignità di uomini e di cristiani».

In lui abbiamo ammirato la figura di un cristiano che riusciva a dire la sua regola di vita senza minacciare. Avrebbe amato vedere in vita una riabilitazione del Savonarola, che ammirava come martire della vocazione cristiana della città, ma la sua predicazione non aveva nulla di quella gridata del frate ferrarese.

Piovanelli era radicale quando glielo chiedeva il Vangelo, ma veicolava la radicalità senza violenza: «Che Gesù vi tolga il sonno, finché non abbiate dato ospitalità a un bisognoso» è stata la massima espressione della sua «ira» pastorale nei confronti dei politici.

Era considerato un progressista ma non coltivava illusioni progressiste: «È difficile misurare fino in fondo la malvagità dell’uomo», diceva. Trovava bella la passione dei fiorentini per la squadra della Fiorentina: «Perché riporta la città a una dimensione paesana». Quando fu interrogato sul fatto che qualcuno – io ero tra questi – lo considerava un papabile, ci rise su: «È come se a chi va in bicicletta si dicesse: sali su un aereo e guidalo».

Seguendolo da lontano e incontrandolo raramente, avevo imparato a cogliere nelle sue parole il distillato di tanta vita evangelica della Chiesa fiorentina. Lui che aveva conversato con La Pira e Pistelli, don Bensi e don Barsotti, padre Balducci e don Milani. Che era stato fatto prete dal cardinale Elia dalla Costa e vescovo dal cardinale Benelli. Che fu collaboratore di don Giulio Facibeni e del futuro vescovo Enrico Bartoletti.

Come vaticanista l’interrogavo ma una volta l’incontrai da fratello e fu per un mio grave lutto. M’abbracciò: «Il Signore benedica la tua sofferenza. Se conservi la fede nella prova, un giorno avrai la sua consolazione». Credo che tanti fiorentini abbiano avuto da lui parole come queste. È in esse che meglio lo amiamo.

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