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Sistema radiotelevisivo, restano le posizioni dominanti

DI LEONARDO BIANCHIIl disegno di legge sul riordino del sistema radiotelevisivo (meglio noto come ddl Gasparri) è stato approvato, con modificazioni dal Senato; ragion per cui dovrà tornare alla Camera. L’ultimo testo approvato, tuttavia, si rivela, per le differenti vicissitudini passate, assai più maturo, a livello di decisione politica, del precedente. Si tratta di un intervento legislativo di rilievo, volto a realizzare quella legge di sistema attesa a lungo, che sostituirà la legge Mammì, inserendo l’ordinamento radiotelevisivo nel processo produttivo di un diritto della convergenza, come strumento di regolazione di una realtà sempre più complessa, integrata ed in rapida evoluzione.

Il principio costituzionale più significativo, vero denominatore comune dell’ordinamento dei media, è il pluralismo dell’informazione, che la Corte, nel corso di quasi 20 anni, ha ritenuto sostanziare un diritto del cittadino-utente, articolandone i contenuti sia nella necessità di una pluralità di fonti di informazione diverse ed equivalenti, in grado di competere tra di loro, sia nel radicamento nella rappresentazione delle diverse voci e posizioni presenti nella società del compito (oggi diremmo missione) del servizio pubblico radiotelevisivo.

Sul primo punto, è indubbio che il passaggio alla tecnica digitale, potenzialmente, sia in sé idoneo a porsi come moltiplicatore del pluralismo; il problema sta, però, nel determinare le caratteristiche del sistema quando questo passaggio si completerà, per evitare che un vulnus al principio pluralistico quale quello ravvisato dalla Corte in relazione all’ordinamento vigente costituisca il vizio d’origine per la messa a regime del Sistema Integrato delle Comunicazioni, facendo operare il digitale come divisore, anziché moltiplicatore di pluralismo.

Questa dimensione è stata parzialmente avvertita, laddove si è impedito alle concessionarie televisive di acquisire società editrici fino al 2008, recependo un principio più generale di garanzia del settore editoriale, che la Corte ha eretto a modello di pluralismo per quello radiotelevisivo, ma che poi non è stato declinato fino in fondo in materia di divieto di posizioni dominanti, le cui soglie sono così elevate da consentire da subito agli operatori in regime di duopolio un’ancor maggiore espansione.

Quanto alla concessionaria pubblica, il modello del Consiglio di amministrazione ripete quello in vigore fino al 1993, con la correzione del Presidente «di garanzia», da eleggere dal CdA con il parere conforme della Commissione parlamentare espresso a maggioranza di due terzi: si rafforza così strutturalmente il ruolo di garanzia del Presidente (ma non è detto che basti a risolvere il problema del rapporto tra azienda e mondo politico), per lo meno in una logica di transizione. Già, perché, dopo 8 anni, ci si propone con quest’intervento di dare seguito al referendum dell’11 giugno 1995 che, abrogando le disposizioni che imponevano la totale pubblicità del capitale sociale della Rai, ne rendeva privatizzabile una parte delle quote azionarie: su questo, si deve ricordare che la Corte, se ha ammesso che questa situazione non è condizione indispensabile per l’esercizio di un servizio pubblico, ha anche richiesto che il controllo rimanga in mano pubblica, ed il nodo va ancora sciolto.

Un cenno, infine, alla vicenda delle cosiddette reti eccedentarie, cioè la terza rete radiotelevisiva privata Mediaset, che eccede il numero massimo di due previste dalla legge Maccanico, e la rete Rai da finanziare senza ricorrere alla pubblicità: il modello viene adesso abbandonato, con serie conseguenze sull’assetto pluralistico del sistema prima dell’avvento del digitale, considerato anche che la riduzione delle barriere tecniche non sarà sufficiente se verranno rialzate e consolidate le barriere economiche all’ingresso dei nuovi operatori.