Opinioni & Commenti

Sotto i portici di Verona… Idee verso il Convegno ecclesiale nazionale

di Franco VaccariConcetti della psicologia individuale si applicano anche ai grandi numeri della sociologia, alla maniera della metafora e non certo del rigore scientifico. A volte aiuta la riflessione. Così, a proposito dei cattolici e del loro rapporto con la politica si è detto spesso, per es., che non hanno ancora «elaborato il lutto» per la morte della Democrazia cristiana.

Analizzando la lunga fase della politica italiana seguita al crollo del muro di Berlino, a Tangentopoli e, dunque, alla morte della Dc, si scorgono nel mondo cattolico evidenti e perduranti sintomi di malessere, riconducibili, per analogia, a un disturbo che si chiama DPTS, Disturbo Post-traumatico da Stress. Insorge con i sintomi tipici che seguono l’esposizione a un fattore traumatico estremo che implica l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte, lesioni gravi, minaccia di morte o altre minacce all’integrità fisica. La risposta all’evento deve comprendere paura intensa, comportamento disorganizzato, agitazione, continuo rivivere l’evento traumatico, evitamento persistente degli stimoli associati al trauma, ottundimento della reattività generale, causando menomazione del funzionamento sociale.

Analogamente, la disgregazione del grande partito d’ispirazione cristiana ha prodotto un coacervo di risposte parallele e interagenti al costituirsi del bipolarismo, il quale imponeva ai cattolici una categoria politica (pur sempre provvisoria) che gli stessi cattolici non conoscevano (in realtà non la conoscevano nemmeno gli italiani) sia per proprio DNA (unità come categoria permanente dell’agire cristiano) sia per l’azione politica maggioritaria cinquantennale dal dopoguerra in poi (unità come categoria provvisoria della maggioranza dei cattolici italiani).

Sovrapporre quel coacervo di risposte alla sindrome descritta produce un effetto sorprendente. I sintomi combaciano con una molteplicità di comportamenti, spesso di breve durata, ma nell’insieme generanti un clima di disagio, frustrazione, disorientamento. Il disturbo va guarito perché il suo perdurare potrebbe produrre, dopo la stagione dei cattocomunisti, dei cattodemocratici, dei cattoliberali – che, al di là dei giudizi di parte, si possono tutti stimare come contributi «alti» alla vita civile e culturale del Paese – quella minimalista e debole dei «cattoconfusi».

Se non si vuole radicalizzare il disagio, sostenendo intransigentemente che i «principi non negoziabili» si possono coniugare solo con una delle due parti del nuovo schieramento parlamentare; se non si vuole neppure qualunquisticamente dire ad alta voce che gli schieramenti sono «uguali» e contemporaneamente, sottovoce, che «il mio è più uguale del tuo»; se non si vuole usare la scellerata prassi della visibilità che premia sempre la voce fuori dal coro, anche se si tratta di una clamorosa stecca, dobbiamo chiudere questa fase «post-traumatica» – la seconda, dopo la Dc – per inaugurarne una terza.

Che i cattolici militino in schieramenti diversi può esser visto come una ricchezza e un’opportunità: per es. l’esigenza di rispondere a una sfida inedita che stimola il dovere di un rigoroso approfondimento antropologico e di un nuovo disegno di società fondato sulla cultura della «casa comune». Un corpo che cresce si diversifica secondo la legge della vita e, in ogni sua parte, si riconosce. Nella microstruttura dei cromosomi come nella macrostruttura, per cui di un platano sono riconoscibili le vecchie foglie della base e le ultime nate nella cima. La strada che si apre davanti non corrisponde né a un binario morto né al gioco del «liberi tutti». Si può avere una fiducia razionale. Certo, cambiato lo scenario – e non solo del quadro politico, ma di quello nazionale e mondiale – si devono cambiare molte cose: categorie culturali, etichette, comportamenti, stili, linguaggi. Dopo una stagione che ha visto deformare il dialogo ora in forme credulone, ingenue, compiacenti, ora in schemi difensivi, arcignamente arroccati su orgogli identitari, in cui il denominatore comune era ed è sempre la paura (di colpe passate – reali o presunte – e di inadeguatezza storica degli uni, di insignificanza sociale degli altri), forse possiamo avanzare in una fase di intelligente e generoso servizio alla società cui un’intera nuova generazione di cattolici potrebbe dedicarsi.

Il Magistero stesso sprona in tale direzione. E, ancor di più, potrebbe determinare quel clima di fiducia reciproca senza il quale la persona più idonea diventa, in politica, una «splendida isolata».

A poche ore, davanti a noi, sta il Convegno di Verona. Possiamo augurarci che segni una svolta in tale direzione.

Di più: un punto di partenza per una fioritura di inediti luoghi della speranza che animino la politica. Potessero nascere 1000 interspazi dove, legittimandosi reciprocamente in questa difficile impresa politico-culturale, si vive un’alta tensione spirituale e una vivace creatività intellettuale. Interspazi intesi come «portici»: al tempo stesso pubblici e privati, luoghi dove si conversa sulle questioni urgenti passeggiando con calma, dove si è protetti eppure si percepisce il mutare delle ore e delle stagioni. E dove un piccolo gruppo, camminando, trova compagni diversi che si uniscono, interessati a ciò che lì si va dicendo.

I «portici» esistono in varie città, si assomigliano e non sono mai uguali perché ogni città è inesorabilmente locale e straordinariamente universale così da concepire società ampie che mutano fino a diventare globali. Possono essere i «luoghi» della guarigione dal trauma. C’è urgenza di un radicamento per formulare un pensiero grande; realtà e simbolo per osare e dilatarsi in ampi spazi, devono sempre più nutrirsi del patrimonio della fede che nel Vangelo ha la sua sorgente inesauribile. Sotto i «portici» si incontrano anche le forze intellettuali più aperte che chiedono ai cattolici di impegnarsi, perché custodi di «un pacchetto» di «principi non negoziabili» da molti presagito come fondamento dell’esistenza umana sul pianeta.

In tale direzione mi pare vada il richiamo autorevole lanciato da queste colonne a non confondere immagini evangeliche attinenti al Regno di Dio con quelle riferite ai singoli credenti: «La dimensione del servizio resta immutata, non a prezzo della perdita d’identità, bensì mediante la sua piena valorizzazione». Quindi una chiara e semplice bussola, una cartina di tornasole a disposizione di chi vorrà attraversare paesaggi nuovi e rischiosi. Non una diffidenza pregiudiziale, ma un invito prudente a camminare. È un’ulteriore eco del più vasto «Duc in altum!» cui si riferiva Giovanni Paolo II. Fiducia in questa nuova generazione per prendere il largo nella politica, ritrovando un porto amico quando si torna e scoprendo che in mare ci sono pirati, ma anche tanti marinai che, pur diversi, fraternizzano e si aiutano per domare una natura non facile: la politica deve farlo ogni giorno con la natura umana.La visita di Benedetto XVI a Verona sarà una spinta a lanciarsi verso un nuovo decennio di impegno.

Contro i catastrofismi apocalittici e la cultura della diffidenza e del sospetto che delegittima e incoraggia ripiegamenti e fughe verso anacronistici intimismi, i cattolici ricevono quel Pane quotidiano che incoraggia a credere che la paura è ingoiata dall’amore. Verona, il luogo dove non si vorrà parlare della speranza, ma rinnovarla e rigenerarla, potrebbe essere la premessa di questa fase di cultura e di azione politica capace di affermarsi positivamente, tra localismi chiusi e universalismi del nulla, apprezzata dall’«esterno» che cerca un progetto di società più convincente e riconosciuta dall’«interno» come propria.

Una nuova stagione di laicità matura – battesimale – responsabile davanti al mondo. Un compito non solo italiano, ma almeno europeo, nell’ora in cui al Continente si guarda con attesa e speranza e questo – finalmente! – dà un segno forte di responsabilità condivisa davanti al mondo.