Opinioni & Commenti

Suicidio assistito: diritto di parola e di scelta per i cristiani e non solo

Ma si tratta comunque di rendere impunibile chi agevola il suicidio. È ben comprensibile che la Cei, abbia espresso a nome dei vescovi italiani «il loro sconcerto» e la loro distanza da quanto comunicato dalla Corte. È lo sconcerto di tanti cittadini, anche di sensibilità e culture diverse e magari anche sentito ed espresso con diverse sfumature, ma sempre dettato dalla profonda convinzione «che esista un diritto alla vita, perno di tutti i diritti della persona, non un diritto alla morte».

A questo punto è doveroso prendere atto della dichiarazione della Corte, è possibile immaginare cosa ci si possa attendere da un futuro dibattito parlamentare, ma soprattutto è necessario tenere conto del pensiero dominante, variamente diffuso in maniera trasversale, in cui siamo inseriti e quindi della responsabilità che abbiamo, come cristiani, di offrire un valido contributo per promuovere concretamente la cultura della vita.

Le riflessioni che emergono possono essere molte. Ne accenno alcune. Innanzitutto mi sembra importante non considerare, e di conseguenza non far apparire, il nostro sconcerto come un fatto «confessionale», tale da far dire ad alcuni: si tratta di un asserto di fede, di cui il legislatore non può e non deve tenere conto. No. Nessuno oggi vuol imporre un dogma di fede a chi non è credente. Parliamo come cittadini e vogliamo esprimere le nostre convinzioni insieme a tutti i cittadini, tanti o pochi che siano, cristiani, islamici, induisti, buddisti, agnostici, atei, che liberamente affermano il rispetto della vita e negano l’esistenza di un diritto alla morte. Non possiamo tacere e non dobbiamo isolarci, né farci isolare.

Insieme agli altri abbiamo anche noi il dovere di affermare il nostro pensiero con chiarezza e con coraggio. Abbiamo il dovere di affermare coralmente i principi fondamentali, mentre chiediamo a giuristi, medici e pensatori cristiani, o comunque rispettosi della cultura della vita il compito di continuare a produrre specifici approfondimenti sui singoli aspetti di questa complessa problematica.

Soprattutto, insieme alla chiarezza di pensiero, vogliamo offrire una limpida testimonianza di coerenza. Sto pensando ai molti malati con patologie umanamente irreversibili e alle molte famiglie che li assistono, che danno prova di serenità, fiducia, senso della vita. Sono loro che, magari tacitamente, offrono a questo dibattito l’apporto più credibile. Sto pensando a tanti operatori e volontari che si dedicano generosamente all’aiuto di queste persone e di queste famiglie. Certamente in questo servizio ci sarà molto da crescere (c’è sempre da crescere e da perfezionare ulteriormente), ma dobbiamo prendere atto che questa realtà esiste, che non abbandona il malato e lo circonda di affetto, mentre lo sostiene con le sempre più affinate cure palliative.

La coerenza include anche l’obiezione di coscienza da parte di medici, operatori sanitari e responsabili di strutture sanitarie. Come si potrebbe oggi negare il diritto all’obiezione di coscienza? O, peggio ancora, affermarlo su altri campi, e negarlo in questo? È preoccupante che una richiesta di morte possa essere ritenuta da vasta parte della pubblica opinione come un diritto e da taluni anche come un diritto che possa costringere altri (soprattutto medici e sanitari) a fare ciò che la loro coscienza chiede di non fare mai.

Da qui la necessità di una profonda e costante formazione a vari livelli, da quello specialistico degli esperti a quello popolare e diffuso dei semplici cittadini. In questa materia non si più procedere per slogan e semplificazioni. La formazione e l’approfondimento favoriscono il dialogo pacato e serio, lontano dalle piazze, reali o virtuali e mediatiche, sulle quali è ben difficile sfiorare delicatamente il mistero della sofferenza e della morte. Il dialogo approfondito e rispettoso permetterà anche di comprendere meglio le «determinate condizioni» indicate nel comunicato della Corte: comprenderle e, quantomeno, non vanificarle.

In ultimo mi sembra opportuno ricordare anche l’impegno della preghiera. Questo sì riservato ai credenti. Preghiera per i malati e per i loro familiari, per i medici, gli operatori sanitari e i volontari, per i cultori del diritto e per i governanti. I credenti sanno bene che Abramo credette sperando contro ogni speranza e che una donna, pur avendo speso tutti i suoi beni con i medici, senza essere stata guarita da nessuno, si trovò poi guarita all’istante, sentendosi dire: «la tua fede ti ha salvata». Per chi crede questo è un impegno fondamentale. Talvolta decisivo. Ovviamente insieme alla coerenza personale di vita e all’impegno pubblico insieme agli altri.

*vescovo di Fiesole, vicepresidente della Cei, delegato dei vescovi toscani per la famiglia e la vita