Opinioni & Commenti

Terrorismo e antiterrorismo nella stessa logica di sangue

di Romanello CantiniAd un anno di distanza dalla guerra in Afghanistan, che doveva iniziare la lotta al terrorismo non si vedono all’orizzonte grandi risultati. Bin Laden, l’obiettivo numero uno di quella impresa, è ancora imprendibile. Anzi, dall’ottobre dell’anno scorso il capo di Al Qaeda, dato più volte per morto o per isolato, si è fatto vivo per ben sette volte attraverso interviste, registrazioni e video distribuiti dalla famosa televisione Al-Jazira per rivendicare attentati o per ripetere ossessivamente le sue minacce. Se la testa della piovra è ancora intatta, i suoi tentacoli sembrano addirittura allungarsi. L’ultimo attentato del 12 ottobre che ha fatto più di 200 morti fra turisti stranieri nell’isola di Bali dimostra che il terrorismo è capace di colpire dall’Atlantico al Pacifico con un escalation che prende di mira non solo gli americani, ma tutti coloro che in qualche modo appartengono al mondo occidentale.La stessa dilatazione si ha ormai nel conflitto arabo-israeliano. Con la seconda Intifada si è passati dalla battaglia nei territori occupati agli attentati nel cuore stesso di Israele. Segno sinistro e ambiguo che già forse mira non solo alla liberazione dei territori occupati ma alla lotta contro lo stato di Israele in quanto tale, alla sua popolazione intera e non solo al suo esercito. Con l’attentato di una settimana fa a Mombasa, nel Kenia, contro turisti israeliani, ormai il terrorismo mostra di mirare agli israeliani in qualsiasi posto si trovino anche fuori del loro paese. Già del resto l’attentato dell’aprile scorso alla sinagoga di Djerba in Tunisia con le sue 21 vittime andava ancora oltre con un salto dall’antisionismo all’antisemitismo violento.

Dopo quasi 700 vittime degli attentati terroristici ormai un israeliano su quattro ha un parente o un amico che è stato ucciso o ferito in un attentato. Un israeliano su due non prende più un autobus. Otto su dieci fanno squillare il telefono più volte al giorno per assicurarsi della sorte dei loro cari.

Il terrorismo ha ormai troppe celebrazioni nelle case, nelle strade, nelle scuole, persino sui siti Internet. Se per le frange estremistiche del movimento palestinese ogni israeliano è un obiettivo potenziale anche se è un ragazzo o una donna, per la strategia repressiva di Sharon ogni eventuale terrorista va eliminato prima che compia il suo gesto con una sorta di inedita punizione per non aver ancora commesso il fatto. In due anni terrorismo e antiterrorismo non hanno provocato altro che lutti e uno schiacciarsi sulle posizioni estreme dall’una e dall’altra parte. Solo poche voci si levano per interrompere una logica che ormai è chiaro non avrà né vinti né vincitori, ma solo il crescere dell’odio contro l’odio. Al di là delle misure militari inefficaci e spesso ingiuste, al di là del lavoro diplomatico che ormai sembra essersi arreso, forse c’è bisogno sempre più di una diplomazia dal basso, di un tentativo sul territorio per ricucire una realtà lacerata e accecata, per cancellare l’immagine dell’altro come male assoluto.

Ha scritto lo scrittore israeliano Amos Oz: «Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto fra ciò che è giusto e ciò che è giusto, fra il bene e il bene, talvolta fra il male e il male, ma mai fra buoni e cattivi». Eppure, proprio in questi casi in cui ognuno ha almeno una parte di ragione, la pace sembra impossibile finché le proprie ragioni accecano la ragione e la necessità di vivere accanto.