Opinioni & Commenti

Ti piace scherzare, o Signore

di Franco Cardini

Sto per affermare una cosa che parrà enorme, eppure è banale al punto che la sanno (quasi) tutti: credenti e forse perfino non credenti.

Ma che cos’è questa storia che nessuno ha mai visto Dio? E che cos’è questa balla del silenzio di Dio, che Dio non si vede e non si sente, che solo pochi mistici o visionari ne hanno o credono di averne avuto esperienza?

Fatemi il piacere. Dio non solo è dappertutto, non solo si manifesta dappertutto: arriva a essere indiscreto, intrufolone, diciamo pure (col dovuto rispetto) un rompiscatole. E badate: non parlo di Dio che si mostra in tutta la Sua potenza quando esplode un vulcano, quando urla il mare, quando si muovono le montagne oppure quando ruggisce la tigre, questo splendido terribile animale che purtroppo noi abbiamo quasi eliminato dalla faccia della terra e ch’è una delle prove più evidenti della Sua esistenza: un Dio così evidente nelle Sue opere che bisogna essere Piergiorgio Oddifreddi per continuar a non crederci. Non alludo al Dio che ti sta dentro e ti obbliga a fare una cosa, ti perseguita finché non l’hai fatta oppure ti tormenta per un peccato commesso o per un’opera buona trascurata. Il Dio nella Natura, nella Speranza, nel Rimorso.

Nulla di tutto ciò. Alludo proprio al Dio che, in quanto Cristo, tutti noi incontriamo di continuo: eppure ci sforziamo di non riconoscerLo e, nel Giorno del Giudizio, negheremo ipocritamente di averLo mai incontrato. Noi, che ci mettiamo il vestito buono se dobbiamo essere ricevuti dal Signor Presidente, dal Signor Commendatore, da Sua Eccellenza Chissacchì e poi agli appuntamenti con Lui – noialtri «cattolici praticanti», a quelli domenicali – ci andiamo trasandati e arriviamo in ritardo. Certo, se non lo riconosciamo è anche perché Lui ci mette del Suo. Si traveste.

Se, Dio mi perseguita. Certo, debbo riconoscere che ha humour e fantasia. È simpatico: nel Suo imperscrutabile intimo, dev’essere un gran buontempone. Quando non Lo penso con i tratti bellissimi e severi del Cristo, Lo immagino come un misto tra l’autoritratto di Leonardo, la severità olimpica di Giove Pluvio (avete presente lo Zeus di Otricoli?), lo ayatollah Khomeini e sotto sotto qualcosa di allegro, di nonnesco, un nonsocché di Babbo Natale. E ride, il Signore: ride come Giove, e la Sua risata scuote i cieli e gli abissi. E sorride. Solo il diavolo non ride mai: sa solo ghignare. Dio ride soprattutto quando si diverte a prendermi in giro. E lo fa in tutti i modi, apparendomi nei momenti e nei contesti più impensati. Si traveste da pakistano e tenta di rifilarmi rose quasi appassite tutte le volte (ohimè, sempre meno) che mi rifugio in un ristorantino con lei; fa il senegalese e pretende che gli compri un ombrelluccio tascabile appena fa una goccia di pioggia, anche se io odio i parapioggia e li dimentico regolarmente in autobus; s’infila perfino le gonne a fiori delle zingare moldave – Signore, per carità, un po’ di contegno!… – per tentare di estorcermi un paio di euro leggendomi la mano o vendendomi amuleti (e sì che queste cose le ha proibite Lui, nell’Esodo e quindi nel Deuteronomio: vedete che è anche sleale?). Non è finita: sale sui treni dei pendolari per distribuire ai passeggeri bigliettini in un italiano a bella posta incerto dove dichiara, mentendo, di essere una ragazza ammalata e orfana con due fratellini a carico; oppure, con la faccia da cane bastonato degli immigrati bielorussi, suona (malissimo) Kalinka strimpellando una decrepita sgangherata fisarmonica tirandosi dietro due marmocchi piagnucolosi e malodoranti. Signore, mi piacerebbe tanto sapere come commenta le tue performances musicali russe il grande Borodin, quando lo incontri nei giardini del paradiso? Oppure si traveste da odiosa vecchietta curva e tremebonda, le manine adunche come la strega di Biancaneve, ti ferma per strada o al mercato e ti racconta tutte le sue sventure senza mollarti finché non le rifili qualcosa.

Signore, abbi compassione. Frena questa persecuzione. Io non Ti ho mai negato qualche spicciolo, tutte le volte che m’imbatto nella Tua invasiva presenza: e alla fine del mese Tu incidi sulle mie finanze più del professor Monti. Fa’ qualcosa anche per aiutare i più teneri di cuore tra noialtri, perché non ce la facciamo più. Prova a suggerirci qualche sistema più efficace per ridistribuire le ricchezze del mondo, cosa necessaria, che non razziare i nostri borsellini.

E soprattutto, Signore, dopo ormai cinque o sei anni, Ti prego, escogita qualcos’altro quando m’incontri per taglieggiarmi al mattino, nella stazione di Santa Maria Novella. Mi sei venuto a noia, con quel Tuo travestimento da ometto piccino e magrolino, con quegli intollerabili berretti colorati di lana da puffo in versione invernale, la barbaccia ispida e un maledetto accento tra il pisano e il livornese che non se ne può più. Mi ti sei messo perfino di traverso, una volta, mentre correvo trafelato carico di bagagli e hai rischiato di farmi tombolar per terra e perdere il treno. Hai sempre da raccontare una storia pietosa, intercalata da «déh» e da «o allora?»: una volta ti hanno tolto chissà perché il piccolo sussidio che ti spettava, un’altra hai contratto un’incurabile malattia e ne hai ormai per poco, un’altra ancora sei pieno di bollette inevase. E, siccome hai pessima memoria, cambi di continuo gli scenari della Tua immaginaria esistenza bohémienne: ora hai la mamma ammalata e ora sei solo al mondo, ora vivi sotto i ponti e ora hai una casuccia verso Novoli in affitto, ma stanno per sfrattarti.

Purtroppo, durante uno dei primi mesi della nostra sciagurata conoscenza, ho fatto l’errore di crederTi, di starTi a sentire: e Tu mi hai rifilato il pacco di una vicenda strappacuore, sostenendo tuttavia che tutti i Tuoi mali sarebbero svaniti se qualcuno Ti avesse «prestato» (hai detto proprio così: ma si può essere più sleali?…) cento euri. Te li ho dati, due fiammanti biglietti arancione da cinquanta prelevati freschi dalla banca, ben sapendo ch’erano à fond perdu. L’ho fatto soprattutto sperando che dopo quel colpaccio Tu ti levassi di torno. Macché. Da allora, non mi dai più pace: sembri davvero convinto che io sia una versione un po’ meno ricca ma in cambio molto più bischera di Paul Getty. E mi corri dietro, supplichi, pretendi. Qualche soldino te lo do sempre: a volte, anche un biglietto da cinque o da dieci; ora, sotto Natale, da cinquanta. Ma, Signore, non Ti sopporto più: e una volta, lo ammetto, rifilandoti una manciata di spiccioli tra quelle manacce sempre tese ti ho anche mandato a quel paese.

Ora, lo so come andrà a finire. Quel Giorno, quando Ti presenterai assiso tra le nubi, bello e terribile, in clamide imperiale e triregno pontificio come Ti ha ritratto Albrecht Dürer, e pronunzierai i definitivi Venite, benedicti e Discedite, maledicti, arrivato il mio turno Ti fermerai un momento e poi mi apostroferai severo, puntandomi l’indice contro: «O ‘ardini – perché, sappiatelo: Benigni e Marasco hanno ragione, Dio parla fiorentino – una vorta, alla stazione, tu’ m’ha’ mandah’ a’quìppaese!». E spero tanto, allora, di trovar il coraggio di replicare tremando: «È vero, Signore, perdonami: ma non Ti ho mai respinto, non Ti ho mai rimandato a mani vuote». A quel punto Ti prego, o Dio onnipotente: non farTi superare in pietà e in carità dal più umile dei Tuoi servi. Spero tanto che riderai ancora una volta, con la Tua risata magnifica e terribile: e che, con un «Ma vacci te a’quippaese, bischeraccio!», mi farai cenno di prender posto, ultimo della fila, alla Tua destra. E così sia.