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Totò Riina: perché non è possibile celebrare un funerale pubblico

«Se prima della morte non diedero alcun segno di pentimento, devono essere privati delle esequie ecclesiastiche [i] peccatori manifesti». Così, il Codice di diritto canonico al capitolo II intitolato «A chi si devono concedere o negare le esequie ecclesiastiche», canone 1184, paragrafo 1, punto 3.

Queste due righe sono sufficienti per capire perché la Conferenza episcopale italiana abbia stabilito di evitare i funerali pubblici per il defunto Salvatore Riina.

Totò Riina ha perpetrato pubblici peccati (resto alla terminologia ecclesiastica) e non ha espresso un pubblico pentimento. Pertanto, se si celebrassero pubbliche esequie si farebbe torto alla realtà, cioè si andrebbe contro fatti pubblici, cioè contro ciò che pubblicamente risulta.

Nello spazio pubblico, infatti, Riina non si è pentito e questo ha una conseguenza chiara. Beninteso: il pentimento di fronte a un prete non è la stessa cosa del pentimento di fronte a un magistrato. Per un prete, la colpa non è data solo da una sentenza, cioè una cosa è l’uomo, un’altra è il cittadino (laicità).

Come ha dichiarato don Ivan Maffeis, direttore dell’Ufficio nazionale delle comunicazioni sociali della Cei: «Da un lato, c’è la solidarietà con le vittime e anche con quella parte di società civile che sta reagendo. Dall’altro lato, c’è la volontà di camminare con la società, con i tanti pastori che hanno pagato o stanno pagando il loro porsi contro la mafia e che si impegnano a una presenza di Chiesa che educhi le coscienze a reagire a una mentalità mafiosa cambiando proprio cultura». Ecco le ragioni di questa negazione, anche oltre il diritto canonico.

Poi c’è un’altra questione: la sepoltura in un cimitero. Questa, con una preghiera da parte di un cappellano, è un atto di pietà che si può fare in accordo con le autorità civili. E poi occorrerà tener conto delle eventuali offerte per messe ai defunti. La Chiesa dovrà evitare che si faccia il nome del defunto, che si possa trattare di un surrogato di funerale e che dunque vi sia pubblicità o addirittura strumentalizzazione.

L’arcivescovo di Monreale Michele Pennisi (Corleone rientra nella sua diocesi, cioè sotto la sua giurisdizione) noto per il suo serio impegno contro la mafia, ha sostenuto in un’intervista: «Non ci sarà alcun funerale, ne ho parlato anche con il questore. La salma sarà portata al cimitero e il cappellano, se la famiglia lo chiederà, potrà dire una preghiera e la benedizione in forma strettamente privata e d’accordo con l’autorità civile. I mafiosi sono scomunicati». E ha annunciato un rischio: «Il mio timore è che adesso la sua tomba possa diventare una meta di pellegrinaggio. Che di Riina si crei un mito […]. Un funerale, specie in Sicilia, ha anche una rilevanza sociale. Sarebbe come dare a Riina la patente di eroe. […] Ho saputo che in alcune periferie ci sono dei ragazzini che giocano a fare Totò Riina».

Ma tutto questo, dal punto di vista filosofico, ma direi più ampiamente culturale, cosa dice, specie a noi laici? Stiamo approfondendo realmente le ragioni fondamentali, essenziali che ci spingono oggi a rigettare l’operato di una persona come Saltatore Riina? Insomma, perché siamo contro la mafia? Perché ammazza o ha ammazzato, o perché altro?

Rispondere a questa ed altre domande ci permetterà di esercitarci a risalire alle ragioni essenziali (culturali) sul perché siamo cittadini, cioè alle radici della nostra convivenza. Ragioniamo, quindi, e «usiamo», prendiamo spunto da questo gesto della Cei per approfondire le motivazioni civili della nostra educazione e opinione, quindi della nostra libertà.

Poi c’è la questione del legame storico tra mafia e cattolicesimo e la netta controtendenza degli ultimi decenni, ma questo necessita un’ulteriore e più ampia riflessione.