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Una partita davvero difficile per il nuovo governo iracheno

di Romanello CantiniA quindici mesi di distanza dall’inizio della guerra l’Iraq non è più formalmente un paese occupato. Diciamo formalmente perché dal 28 giugno la sovranità è stata ceduta ad un governo composto da iracheni, ma un membro di questo governo non potrebbe nemmeno uscire di casa se non avesse alle spalle la protezione di 140 mila soldati americani che rimangono per ora nel paese. Come accade per tutti i governi provvisori, anche che cosa e chi rappresenti in realtà questo esecutivo è una ipotesi tutta da verificare prima di una investitura elettorale. A cominciare dal premier Iyad Allawi il nuovo governo è composto per lo più di notabili che hanno un certo ascendente nella propria tribù di origine, ma sono anche degli ex-fuoriusciti che portano insieme l’aureola dell’esilio e la faccia del mai visto da trent’anni.

La novità più rilevante di un governo in linea di principio sovrano è che d’ora in avanti la resistenza interna e il terrorismo importato dal di fuori si troveranno di fronte non solo delle truppe straniere, ma anche dei soldati nazionali. La guerriglia insomma diventerà sempre più guerra civile anziché guerra di liberazione ed è da sperare che l’idea di far saltare in aria dei connazionali trovi meno consenso di quello che sembra raccogliere il terrorismo contro degli occupanti stranieri.

E tuttavia la grande scommessa che il nuovo governo deve cercare di vincere anche al fine di dimostrarsi veramente sovrano è quella di dotarsi, al meno di qui ad un anno, di un esercito e di forze di polizia proprie capaci di sostituire le truppe di occupazione e di dare al paese un minimo di sicurezza. Più la violenza continua e più c’è bisogno di una forza armata capace di contenerla. Ma più la presenza straniera dura e più la resistenza trova sostegno. Questa corsa contro il tempo per dotarsi di una milizia nazionale appare ancora oggi tuttavia un disegno più temerario che coraggioso. Il tiro al bersaglio che ormai il terrorismo esercita soprattutto contro le caserme e le divise di un esercito quasi tutto ancora da ricostruire non scalda certo l’entusiasmo di chi vuole arruolarsi.

D’altra parte il pesante investimento nella sicurezza deve essere ritagliato in mezzo a troppe altre emergenze anch’esse necessarie a recuperare il consenso della popolazione. Dalla guerra contro l’Iran di venti anni orsono ad oggi il reddito di un iracheno è crollato di cinque volte ed oggi è fra gli ultimi dei paesi arabi nonostante le sue risorse teoriche. Un iracheno su due è disoccupato ed uno su cinque vive con quelle razioni alimentari che furono concesse a suo tempo con il programma «Petrolio contro cibo». La rendita petrolifera è divorata in buona parte dal pagamento di un debito estero di 120 miliardi di dollari.

Ma il problema più drammatico è che nemmeno la ricostruzione del paese appare possibile in queste condizioni di estrema insicurezza e di guerriglia endemica. Lo spettacolo atroce degli ostaggi stranieri decapitati sta mettendo in fuga anche le prime imprese straniere che erano giunte sul posto per riattivare le infrastrutture del paese. Lo sfruttamento del petrolio a sua volta deve far fronte ai continui sabotaggi degli oleodotti.

Così le armi possono dire sì o no perfino agli interventi umanitari e in fondo tutta la partita si gioca sulla capacità del nuovo governo di apparire sempre più autonomo dagli occupanti e di accumulare consenso mettendosi in sintonia con una sensibilità nazionale che si sente oggi profondamente ferita.

Iraq, passaggio di poteri ad Allawi