Opinioni & Commenti

Università, riforma necessaria, ma questa non convince

di Franco Cardini

«Toscana Oggi» mi chiede un parere personale sulla cosiddetta «Riforma Gelmini». Lavoro nell’Università da oltre quarant’anni, anche se ho insegnato parecchio all’estero e ho sempre rifiutato – per una specie di allergia – di assumere incarichi direttivi negli Atenei. Non mi pare sia nemmeno opportuno esprimer pareri in questo fluido e incerto momento, con il dibattito ancor in corso in Parlamento e il governo in bilico.

Sono entrato nell’Università nel 1967: si erano abolite da poco le «libere docenze» e si sarebbe di lì a poco eliminata l’isitituzione (benemerita) degli «assistenti volontari». Erano i primi segni dell’incertezza e del caos che sarebbero regnate nei decenni successivi, tra provvedimenti e controprovvedimenti. La Riforma Gentile del 1923, più liberale che non fascista (il fascismo si sarebbe trasformato in regime solo nel ’25), aveva retto piuttosto bene per quasi mezzo secolo e si trattava solo di ritoccarla con misura e senso di responsabilità. La prospettive della «rivoluzione giovanile» del Sessantotto e dintorni, l’inadeguatezza di molti politici e la viltà e/o la disonestà almeno intellettuale (ma non solo…) di troppi docenti  ci hanno portato a questo punto: Università allo sbando, «tagli» e storni di fondi pubblici verso gli Atenei privati, una classe docente screditata in seguito a decenni di concorsi «ritoccati» o «truccati» (e, direttamente o indirettamente, tutti noi docenti ne siamo respnsabili: se non altro per aver accettato, sottovalutato, taciuto), l’impossibilità pratica di rinnovare correttamente il personale docente e ricercatore, «mortalità universitaria» (cioè studenti che abbandonano gli studi senza aver conseguito la laurea), disoccupazione dei laureati e dei «dottori» (e «postdottori») di ricerca alla quale la «fuga dei cervelli all’estero» – su cui si è fatto troppo battage, e che troppo spesso si risolve in una nuova delusione – è lungi dal poter porre rimedio anche solo parziale.

Non nego che, nella lettera del testo di riforma e nelle intenzioni di chi l’ha redatto, ci siano cose buone: una soprattutto, la «lista nazionale» per i concorsi, che si rende necessaria anche visto il tragico fallimento delle «idoneità a lista aperta» degli Anni Ottanta.

Ma l’idea di proporre come commissari solo i docenti ordinari è inopportuna: ed è ridicolo che provenga da un ministro che dice di voler combattere lo strapotere dei «baroni». Ma i «baroni», ormai – a parte qualche residuale caso lobbistico, soprattutto in alcune facoltà scientifiche – non ci sono ormai più: i professori universitari sono ormai una categoria screditata e oggetto quasi di dileggio, il loro prestigio sociale è ridotto a zero in una società che valuta pochissimo la cultura e non ne ha quasi alcun rispetto, i livelli economici delle loro retribuzioni li fanno apparire ridicoli in un mondo che rispetta la gente in misura direttamente proporzionale ai suoi profitti e alla sua visibilità.

Questa riforma sarebbe importante a due livelli: gli organi di governo e la valutazione dei docenti, degli studenti e delle strutture. È, allo stato attuale, fallimentare in entrambi i campi.

Sul piano degli organi di governo, la prospettiva ministeriale stabilisce la dittatura negli Atenei di un rettore-manager accompagnato e sorvegliato da un carrozzone nuovo (L’Anvur, Associazione nazionale per la valutazione dell’Università e della ricerca) costituito in parte da non-universitari (cioè da imprenditori, manager, ecc.) e dal Ministero dell’economia. È l’illusione di un’efficienza e di un produzionismo che poco e nulla hanno a che fare con la ricerca scientifica, l’insegnamento e l’apprendimento: è il segno della conquista di un’Università pubblica ormai ridotta a un’ombra e minacciata da Atenei e Masters privati all’economia e alla politica. È l’affossamento definitivo di quella classe insegnante che del resto negli ultimi anni è stata selezionata attraverso concorsi troppo spesso addomesticati e ha perduto quasi del tutto senso dello stato e della dignità.

Ecco perché le valutazioni concorsuali e quelle «meritocratiche» di modalità di accesso, premi e borse di studio appaiono viziate in partenza: a parte l’insopportabile demagogia «di destra» della democrazia, odiosa come lo era la demagogia «di sinistra» del voto politico e dell’abolizione forzata delle gerarchie di merito che hanno condotto alla svalutazione dei titoli di studio e alla diffusa onocrazia imperante nel paese (per i non ellenofoni, «onocrazia» significa «governo dei somari»: che oggi spadroneggia, dalle aule parlamentari alla tv alla scuola stessa).

Oggi, per riformare l’Università, occorrerebbero fondi più sostanziosi ma soprattutto serietà, rispetto del sapere, onestà intellettuale e senso dello stato. I primi sono insufficienti; le altre cose ormai sono quasi del tutto scomparse. La scuola e l’Università sono specchio della società che li esprime; la società italiana, oggi, merita del tutto quelle che ha. Per cambiarle, occorrerebbe una rivoluzione. Magari non politica e violenta (non vedo proprio chi potrebbe farla, oggi, nel nostro Paese): ma intima, etica, profonda. Nascerà: tra qualche anno, quando avremo attraversato la crisi sociale e civile che ci sarà, dura e forse drammatica. Per ora, si può solo cominciar a ricreare nicchie di rimoralizzazione politica e sociale da cui ripartire.