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Usa, per Bush una sconfitta annunciata

DI ROMANELLO CANTINIEra una sconfitta annunciata quella che i repubblicani hanno subito alle elezioni americane di medio termine. Non è stata l’economia che ha punito il partito dell’Elefante visto che la crescita degli Stati Uniti continua ad essere superiore a quella dell’Europa e la disoccupazione è ai minimi storici. Semmai l’hanno danneggiato i numerosi scandali di libertinaggio e di corruzione in cui sono stati coinvolti esponenti repubblicani di primo piano negli ultimi mesi.

In queste elezioni, in cui si scelgono deputati, senatori, governatori e innumerevoli funzionari anche di grado infimo, si è votato di fatto per la carica più alta, cioè il presidente, anche se non era in corsa.

Il crollo di popolarità di Bush ha infatti trascinato con sé l’intero partito che perde ora una supremazia al Congresso che durava dal secolo scorso, nonostante molti candidati avessero cercato di assicurarsi contro questo infortunio, smarcandosi dall’inquilino della Casa Bianca e mettendo in luce ciò che li divideva da ciò che li univa all’uomo in cui tutto il partito fino a ieri si riconosceva.

La sconfitta di Bush è tanto più netta in quanto il presidente si è gettato alla fine nella mischia della campagna elettorale e ha portato al centro del dibattito proprio quel tema su cui gli avversari democratici volevano trascinarlo, cioè il tasto sempre più dolente della guerra in Iraq.

Nemmeno la condanna a morte di Saddam è riuscita a risollevare la popolarità del presidente che sperava in un premio diverso per questo trofeo di guerra. Con tutta evidenza anche l’elettore americano ha pensato che il terrorismo con cui si è cercato di identificare Saddam è l’ultimo dei crimini che si possono attribuire all’ex-dittatore dell’Iraq.

Ha pesato insomma fortemente sul voto il prezzo di sangue pagato dagli stessi Stati Uniti alla guerra con quei 2.800 morti che sono oramai superiori alle vittime dell’11 settembre.

Ha giocato il fatto che questa guerra ha ormai un’età uguale a quella trascorsa fra Pearl Harbour e Hiroshima senza che in questo caso si intraveda, non diciamo la fine, ma solo il modo di uscirne. E in sostanza, anche fra chi, tre anni fa, approvò la guerra, si ha una profonda sfiducia per una violenza che cresce ogni giorno, anziché accennare a placarsi, e per chi, dopo aver voluto la guerra, non ha saputo combatterla nel modo migliore.

Dal punto di vista puramente istituzionale il presidente Bush non è direttamente toccato da questo voto. La divisione dei poteri nel sistema democratico americano è tale che un presidente, nonostante sia – come si dice in questi casi – un’anatra zoppa, può continuare da solo una guerra anche se il Congresso può lesinargli i fondi, perseguitarlo con inchieste, nel caso estremo sottoporlo alla procedura dell’impeachment.

Per di più, Bush è ormai in quello stato d’animo tipico del secondo mandato, quando il presidente sa che non potrà entrare per la terza volta alla Casa Bianca e al limite può pensare solo se entrare o no nella storia infischiandosene degli umori dell’elettorato. Ma la pressione del partito repubblicano sarà enorme anche se è difficile pensare che si possa risalire la china da qui alle prossime elezioni presidenziali fra due anni.

In fondo, il problema è oggi vedere se il partito democratico, oltre che la forza, ha anche le idee e la fantasia necessarie per uscire da una guerra così compressa che è più facile da condannare che da chiudere in qualche modo.