Opinioni & Commenti

Vendette e caos politico, la nuova Libia parte male

di Romanello Cantini

Nelle guerre civili è soprattutto alla fine che si commettono le violenze più gratuite e i crimini più numerosi. Gli sconfitti sono spinti a sfogare la propria rabbia sull’ultimo nemico di cui possono disporre. I vincitori hanno troppi prigionieri fra le mani perché tutti possano sfuggire alla vendetta di chi vuol far pagare il compagno caduto all’avversario con le mani alzate. La fine delle vendette e un rapido addio alle armi dovrebbe essere ora la prima preoccupazione di chi dentro e fuori la Libia ha partecipato al rovesciamento del regno di Gheddafi.

La seconda preoccupazione, legata in parte alla prima perché anche la clemenza dei vincitori può aiutare a far deporre le armi, dovrebbe essere quella di evitare il rischio che una relativamente rapida vittoria sul campo sia seguita, come è accaduto in Afganistan e in Iraq, da una guerriglia infinita fatta di attentati e di atti terroristici.

A questo fine è importane far uscire al più presto il paese dal caos in cui la guerra civile lo ha gettato, riorganizzando rapidamente ospedali, rifornimento alimentare, ordine pubblico e scuole, rastrellando armi che sono state distribuite tra la popolazione dal regime in agonia e che sono giunte generosamente ai ribelli attraverso gli Stati che li hanno sostenuti dall’esterno. Bisognerà trovare qualche occupazione che non sia la guerra ai giovani che hanno combattuto in un paese che, non dimentichiamolo, è sceso in piazza sei mesi fa soprattutto perché non poteva spesso andare al lavoro.

I rappresentanti dei ribelli si propongono ora di convocare una conferenza nazionale per creare una nuova costituzione e formare un governo provvisorio che indica elezioni sotto il controllo dell’Onu. È tuttavia difficile oggi immaginare quali forze politiche capaci di governare possa esprimere un paese che non vota da sessanta anni. Che non ha mai avuto partiti politici e in cui tribù dell’Est e dell’Ovest, beduini e berberi non sono riusciti ancora a fondersi in una società civile e men che meno nazionale.

Anche le aspettative e i vantaggi particolari che dall’esterno si nutrono sulla nuova Libia, anche in compenso ai seimila raid aerei che hanno sostenuto i ribelli, sono ancora tutte da verificare. L’attesa di una diminuzione del prezzo del petrolio con la ripresa della produzione libica deve fare i conti con i propositi manifestati dai ribelli di rivedere tutti i vecchi contratti di sfruttamento firmati con le compagnie internazionali e accusati di essere frutto di corruzione e di correggere i prezzi del petrolio libico verso l’alto per far godere della rendita petrolifera tutto il popolo libico e non solo chi lo governa come è accaduto finora.

Anche per quanto riguarda la fine della emigrazione soprattutto verso l’Italia non si tiene conto che, se la ripresa della economia libica può far tornare nel paese gli egiziani e i tunisini che sono fuggiti, può fare ben poco per la emigrazione che proviene dal centro dell’Africa. Di fronte a questa emigrazione che da sempre mira all’Europa e non alla Libia sarà difficile che un nuovo regime, sorto nella rivendicazione dei diritti umani, accetti di rinchiudere gli stranieri in disumani luoghi di detenzione come faceva Gheddafi.

La fine del più vecchio regime africano costituisce il terzo successo della cosiddetta «primavera araba» dopo la caduta dei regimi di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto, anche senza mettere ancora sul conto il turbolento regime dello Yemen e anche se è difficile prevedere le novità della Libia di domani affidata ad un movimento guidato in buona parte da fedelissimi di Gheddafi fino all’anno scorso.

Bisognerà aspettare le elezioni tunisine dell’ottobre prossimo, le elezioni egiziane ancora da fissare, la costituzione della Libia e il suo futuro parlamento, per stabilire se le sorprendenti sollevazioni arabe del 2011 sono state poco più di una rivolta del paese oppure una grande rivoluzione politica che inizia una nuova epoca sul mondo arabo. Due elementi sono soprattutto da valutare attentamente: l’eventuale peso di un integralismo seppure rimodernato nella futura democrazia e i rapporti con Israele tenendo conto che la Tunisia è l’unico stato arabo che non è mai stato in guerra con Israele e l’Egitto è l’unico che ci ha fatto la pace.