Sport

Allenare i genitori prima che i ragazzi allo sport buono

Quanto è difficile essere allenatori: da un lato le responsabilità verso i ragazzi, dall’altro la tentazione di una carriera brillante. In mezzo, una miriade di condizionamenti come la fama, il guadagno, i media e le famiglie. Soprattutto le famiglie. Perché l’allenatore è proprio colui al quale padri e madri affidano i propri ragazzi, certi di averli lasciati in ottime mani. «Tutti noi pretendiamo che gli allenatori siano ottimi insegnanti per i nostri figli, ma poi nessuno si preoccupa di preparare questi educatori», fa notare Norbert Muller, membro della commissione cultura del Comitato olimpico internazionale. Della difficoltà di essere allenatori si è parlato a lungo nel quarto seminario internazionale di studio sullo sport, promosso dalla sezione «Chiesa e sport» del Pontificio Consiglio per i laici. All’evento hanno partecipato allenatori, atleti, studiosi e responsabili dello sport delle varie conferenze episcopali. E ognuno di loro ha raccontato la propria esperienza per aiutare a comprendere un mondo, quello dello sport, in continua evoluzione.

Costruire campioni. «Non è facile, per un allenatore, avere a che fare con quei genitori che vogliono vedere il proprio figlio diventare un campione», sostiene il presidente del Centro Sportivo italiano, Massimo Achini. Quello dei genitori invadenti che scaricano sui figli le proprie aspettative è un virus ormai sempre più diffuso, e quasi non fanno più notizia gli arbitri insultati e gli allenatori contestati durante le partite fra bambini. Secondo Achini, ogni istruttore, di qualsiasi disciplina sportiva, «sa che la parte più difficile del suo lavoro non è allenare i ragazzi. Ma i loro genitori». La forza per ripartire. Tra i partecipanti al seminario c’era anche chi, grazie allo sport, ha trovato la forza di andare avanti quando tutto sembrava perso. «Lo sport mi ha restituito ciò che credevo smarrito per sempre: la speranza», ha detto Irene Villa, campionessa spagnola di sci paralimpico. Quando aveva solo 12 anni, Irene perse l’uso delle gambe a causa di un attentato terroristico dell’Eta, nel quale rimase gravemente ferita anche sua madre. «Quando, all’improvviso, mi sono ritrovata senza gambe pensavo che per me fosse finita, ma poi ho capito che dovevo lottare, sacrificarmi. E lo sport – confessa – è stato proprio la molla che mi ha spinto a non arrendermi mai». Dopo il dramma che l’ha colpita, infatti, Irene non si è arresa. E ha trovato nello sport la sua nuova ragione di vita. È diventata una sciatrice, ha vinto tre medaglie alle paraolimpiadi e adesso è uno dei personaggi sportivi più celebri in Spagna. La spinta alla solidarietà. All’incontro di oggi era presente anche Ivan Ramiro Cordoba, ex calciatore colombiano dell’Inter che, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, ha deciso di usare il calcio per fare solidarietà. Cordoba ha creato la fondazione «Colombia te quiere ver» per aiutare bambini non vedenti in stato d’indigenza, e sull’importanza dello sport come fattore di inclusione sociale non ha dubbi: «Il calcio ha cambiato la mia vita, perché mi ha reso ricco e famoso. Adesso che ho smesso di giocare era giusto che facessi qualcosa di buono per aiutare chi è stato meno fortunato di me». L’idea che lo sport sia un mezzo, e non un fine, viene ribadita anche da Sandra Allen Craig, responsabile di «Future in Youth» a Timor Est. «Per tutti i ragazzi e i giovani che fanno sport – sostiene Sandra – l’allenatore rappresenta un punto di riferimento, una persona importante non solo per la sue capacità tecniche. È giusto, allora, che qualcuno si prenda cura degli allenatori, offrendo loro percorsi di formazione che siano adeguati alle responsabilità che hanno verso i giovani». Con la sua associazione, Sandra promuove l’educazione attraverso lo sport nelle aree del mondo dove i bambini vivono situazioni di disagio e povertà. «Nei paesi in via di sviluppo – prosegue Sandra – l’allenatore si trova il più delle volte a dover sostituire le famiglie di questi ragazzi. E questo lo rende ancora più speciale agli occhi dei bambini». Lotta al doping. Nel corso del seminario si è parlato anche di doping, indesiderato protagonista di molte vicende sportive. «Chi si dopa pensa di prendere una scorciatoia, ma non capisce che così sta solo rovinando due vite, la sua e quella di ogni appassionato di sport», ha detto Gerhard Treutlein, responsabile del centro per la prevenzione del Doping in Germania. E contro l’uso dei farmaci illeciti nello sport si è scagliato anche Jaime Fillol Duran, ex tennista cileno passato alla storia per aver giocato il set più lungo nella storia della Coppa Davis, nel 1976 contro gli Stati Uniti. «Se questa partita interminabile l’avessi giocata oggi – ha scherzato Jaime – mi avrebbero subito sottoposto ai controlli antidoping per controllare che non avessi usato qualche pillola strana».