Musei d'arte sacra
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Museo della Cattedrale di Lucca

Parole chiave: musei d'arte sacra (92)

Il Museo della Cattedrale di Lucca, aperto nel 1992, è stato costituito per custodire gli arredi e le opere pittoriche e scultoree della Cattedrale che, rimosse dall'originaria ubicazione per motivi di conservazione o sostituite per soddisfare i periodici cambiamenti del gusto, giacevano parte nei depositi, parte nella sacrestia del Duomo.

La sistemazione delle opere all'interno del complesso architettonico che ospita il museo segue un criterio cronologico, con l'unica eccezione rappresentata dalla sala riservata ai codici e ai corali miniati, che sono riuniti in un solo ambiente per meglio controllare le fonti di illuminazione e che vengono esposti a turnazione. Per questa ragione si danno qui soltanto alcuni cenni generali che consentano di orientarsi sui codici che verranno via via inseriti in esposizione. Tra i più antichi spiccano i mss. 24, 25, 40, 41, 68 e 124, caratterizzati da grandi capilettera profilati di giallo, con l'interno coperto da una decorazione astratta, prevalentemente a intreccio geometrico con forme vegetali fortemente schematizzate.

Il gruppo rientra pienamente nella produzione centro-italiana del tardo XI secolo, che risponde più che a necessità di decoro opulento alla volontà di diffondere la liturgia romana di tipo gregoriano con testi omogenei, rapidi da eseguire e di spesa limitata. Modalità di decoro vegetale più libero e vario, che investe le iniziali giungendo a trasformarne il tracciato alfabetico in un fluido sistema di foglie e fiori, mostra un secondo gruppo di codici, di poco più tardo (mss. 38, 48, 56, 58, 85, 89, 603, Passionario C, Bibbia 2). Di particolare interesse è la somiglianza recentemente riscontrata tra i girali vegetali di queste miniature e quelli scolpiti sugli architravi di alcune chiese cittadine, come quella di S. Frediano e quella più periferica di S. Margherita a Capannori.

Tra la dotazione di libri liturgici dell'Opera del Duomo (22 corali membranacei) spicca un complesso stilisticamente omogeneo e unitario dal punto di vista liturgico. Si tratta di cinque corali sontuosamente miniati, evidente frutto di una ricca ed importante commissione, originata da quel generale impulso al rinnovo della Cattedrale che iniziò dopo che la città ebbe riconquistato la sua libertà dalla dominazione pisana nel 1369.

Elementi iconografici (la presenza di Santa Brigida, venerata già in vita, ma canonizzata solo nel 1391) permettono di assegnare il complesso all'ultimo quarto del Trecento. Tale datazione è confermata anche dagli uniformi caratteri stilistici che consentono di individuare l'autore della decorazione miniata in Martino di Bartolomeo, pittore senese attivo anche nella vicina Pisa. Solo negli ultimi decenni del Quattrocento si avvertì l'esigenza di un rinnovamento del complesso di libri della Cattedrale, dovuto all'attenzione del vescovo Stefano Trenta e poi dell'operaro Domenico Bertini, il cui emblema - un gallo che becca una spiga - compare tra i fregi del corale 4. Eseguiti tutti prima del 1492, i libri 4, 5, 6 sono presumibilmente da attribuire a uno dei pittori lucchesi che, assieme a Matteo Civitali, alla fine del Quattrocento, reinterpretavano in un personale linguaggio le novità fiorentine. Il corale 2 è invece di qualche anno anteriore e di cultura prettamente senese, tra Francesco di Giorgio e Liberale.

Infine una serie di poco più tarda della precedente (corali 11, 13, 14, 16-18 e ms. 619) si può ricollegare alla notizia che per l'Opera della Cattedrale abbia lavorato il monaco camaldolese di origine fiorentina Giuliano Amidei, cui si può riferire forse la progettazione della serie.

Dalla visita alla sala II, che ospita gli oggetti più antichi del museo compresi in un arco di tempo che va dal VI al XV secolo, appare evidente che quasi nulla rimane a testimoniare l'aspetto della Cattedrale prima della ricostruzione dell'XI secolo: il frammento di pilastrino marmoreo decorato a intreccio, rinvenuto recentemente nel muro esterno dell'antica sala capitolare dove era stato reimpiegato come elemento della muratura, può solo evocare il fastoso assetto del presbiterio, che antiche fonti descrivono impreziosito da transenne e dotato di una cripta rivestita di marmi.

Altro importante resto della prima Cattedrale è la lapide sepolcrale di Leo Giudice, morto nel 1046, che testimonia dell'uso di seppellirvi le personalità più rilevanti sul piano civile e religioso. A tempi più recenti risalgono invece una pisside lignea, minuscola quanto preziosa per la sua rarità, eseguita, come attesta la scritta incisavi, nel 1174 da Donno Placido e il reliquiario a cofanetto realizzato in rame dorato e smalti champlevés, uno dei pochi esemplari rimasti in Toscana della produzione orafa di Limoges, celeberrima in tutta Europa tra il XII e il XIII secolo: il reliquiario reca sul fronte la scena della Morte di San Tommaso Becket e sul coperchio Il trasporto della sua anima in cielo.

Non siamo in grado di stabilire quando e come entrò a far parte del tesoro della Cattedrale il dittico eburneo del console Areobindo, che resse tale carica a Costantinopoli tra il 506 e il 545: è certo comunque un precoce uso liturgico dell'oggetto, poiché all'interno delle valve sono incisi, con grafia riferibile attorno al VII-VIII secolo, alcuni nomi di santi, tra cui quello di Frediano.

Anche con il raro cofanetto in cuoio modellato e dipinto, probabilmente uscito negli ultimi anni del Trecento da un'officina di Bruges, siamo di fronte ad un oggetto nato per un uso laico, come augurale dono nuziale, nonostante che le scene raffigurate siano di soggetto sacro e coprano l'intero ciclo cristologico, dall'Annunciazione alla Crocifissione e alla Deposizione. Donato alla Cattedrale intorno al 1432 da un mercante lucchese, Balduccio Parghia degli Antelminelli, il cofanetto si inserisce perfettamente, con la sua origine franco-fiamminga, nel gusto gotico e internazionale che dominava nella Lucca fra Tre e Quattrocento.

Ai primi anni di quest'ultimo secolo risalgono gli altri tre oggetti di oreficeria esposti, tra i quali spicca la cosiddetta Croce dei Pisani, quasi certamente da identificare con quella appartenuta al Signore di Lucca Paolo Guinigi, che nel 1411 la commissionò all'orafo Vincenzo di Michele da Piacenza. Il Cristo vi appare circondato da angeli ploranti e stagliato sull'Albero della Redenzione dai cui fiori fuoriescono busti di profeti e apostoli; ai lati le figure della Madonna e di San Giovanni di raffinatissima esecuzione. Ad orafi lucchesi si devono invece la crocetta “per dare la pace” - che conserva tracce dell'originaria decorazione a smalto e reca un crocifisso aggiornato sui modelli fiorentini imposti da Donatello e Brunelleschi - il bottone di piviale e il Braccio-reliquiario di San Biagio. Il piccolo raffinato telo con l'Annunciazione, infine, già ricordato negli inventari degli arredi della Cattedrale nel 1409, testimonia da parte delle manifatture lucchesi la produzione di tessuti con scene figurali iterate, tipologia che avrà poi un grande successo anche a Firenze.

Nella III sala sono raccolte alcune significative testimonianze di una felice stagione della vita artistica lucchese solo da poco riscoperta dalla critica. A partire dall'ultimo quarto del XV secolo, infatti, lo scultore Matteo Civitali, l'orafo Francesco Marti, i pittori Vincenzo Frediani, Michele Ciampanti e Michelangelo Membrini hanno animato una riflessione a tutto campo che ha investito il modo di scolpire la pietra come il legno, di cesellare il metallo, di dipingere figure ed ornati. Tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento si crea dunque a Lucca un particolare clima culturale, aperto e attento alle esperienze fiorentine da Botticelli a Ghirlandaio a Filippino Lippi, ma sostanziato da dirette esperienze nordiche che, in parte, sono state ipotizzate per la frequentazione continua delle Fiandre da parte dei mercanti lucchesi e, in parte, sono risultate da testimonianze documentarie. Di questa diffusa dimestichezza è testimone, tra gli arredi della Cattedrale, anche l'armadio di legno di quercia riferibile appunto a manifattura franco-fiamminga.

Molte sono le chiese lucchesi che cambiano aspetto in questi anni sotto la spinta di vivi fermenti religiosi: prima fra tutte la Cattedrale che, sotto la guida dell'operaro Domenico Bertini, ebbe tutto il suo interno ricreato da Matteo Civitali e dai suoi collaboratori. A lui si devono infatti tre grandi sepolcri a parete, il tempietto che ospita ancora oggi il Volto Santo, il ciborio per la cappella del Ss. Sacramento, il nuovo pavimento, il recinto del coro e il pulpito. È di queste due opere appunto che si dà qui testimonianza con alcuni plutei del recinto corale e con le lunette rappresentanti Profeti, dipinte da Vincenzo Frediani e poste fino al 1882 a coronamento del pulpito. A questo stesso pittore appartengono sia la tavola con la Sacra Conversazione sia l'affresco con la Trinità, staccato in corrispondenza del secondo altare destro. Accanto ai lavori di scultura del Civitali e ai dipinti del Frediani sono state collocate due eccelse realizzazioni in metallo dell'orafo loro contemporaneo e amico, Francesco Marti: il Reliquiario di San Sebastiano, vera e propria esemplificazione dei motivi presenti nel repertorio del Civitali e il pastorale che, specie nel gruppo con San Martino e il povero, chiarisce la personale meditazione che Marti condusse su Verrocchio e Pollaiolo e che dà ragione agli Anziani di Lucca quando presentavano Civitali e Marti come degni possibili esecutori di un monumento a Carlo V, mai realizzato.

I tre dipinti esposti nella IV sala, provenienti con ogni probabilità dagli altari del Duomo, rappresentano il momento conclusivo, collocabile entro la metà del Cinquecento, di quel processo di arredo interno della chiesa che, iniziato alla fine del Quattrocento, venne poi totalmente stravolto pochi decenni dopo dal rinnovamento degli altari interni in ottemperanza a nuovi ideali di decoro diffusi dagli orientamenti imposti dal Concilio di Trento. Assieme alla tavola di Fra Bartolomeo, ancora in Cattedrale, essi attestano come anche a Lucca fosse filtrato il grande dualismo linguistico che aveva caratterizzato la cultura artistica romana e fiorentina dei primi anni del Cinquecento. Così alla riproposizione di temi raffaelleschi, filtrati attraverso l'interpretazione di Fra Bartolomeo, fornita da Leonardo Grazia da Pistoia nell'Annunciazione, si contrappone il michelangiolismo esasperato e ormai manierato della lunetta con il Padre Eterno, unico resto di una pala d'altare che il lucchese Agostino Marti dipinse per il Duomo nel 1517. Tra i due estremi si inserisce la pacata mediazione tra stilemi raffaelleschi e michelangioleschi che Zacchia il Vecchio propone nella Santa Petronilla.

Dalla chiesa di S. Giovanni, dove erano collocati ai lati dell'altare maggiore, provengono i due tondi con la testa di San Giovanni Battista: uno cinquecentesco di Masseo Civitali, l'altro del secolo scorso di Vincenzo Consani. Pure in S. Giovanni era collocata la Pietà, un tempo in casa Penitesi, lavoro di uno scultore settentrionale del XVI secolo, interessante e raro esempio di immagine destinata al culto privato. Completava invece l'arredo della Cattedrale il candelabro cinquecentesco in ferro battuto, utilizzato per le cerimonie della Settimana Santa.

Come si può evincere dagli oggetti esposti nella V sala, verso la fine del Cinquecento la produzione orafa lucchese - garantita dal marchio L entro lo scudo - si orienta sulle realizzazioni di un grande fiammingo, Baldassarre Morovella, che sigla le sue opere, eseguite a sbalzo e a cesello, con il marchio “BM”. I lavori sono realizzati con una tecnica impeccabile e ricorrono al raffinato repertorio dell'oreficeria olandese e tedesca. Sono sue le splendide coperte di Epistolario ed Evangelario, ciascuna con San Martino e il povero e il Volto Santo; sue le sobrie ampolle per gli olii santi e la piccola cassetta destinata al medesimo uso, come pure il secchiello che ripropone all'attacco dei manici gli stessi mascheroni, che comparivano sul corpo delle ampolle e sulla costola di una delle coperte.

Nella prima metà del Seicento il gusto orafo cambiò radicalmente con l'arrivo a Lucca di un maestro di educazione romana, Ambrogio Giannoni. Come si vede chiaramente nelle sue opere firmate - tra le più importanti la corona e il collare del Volto Santo, pure esposti in questo museo - egli dà vita ad immagini sfarzose, dal ritmo lento e pausato, eseguite privilegiando la fusione sullo sbalzo. Il nuovo stile viene condiviso dal lucchese Pier Controni, di cui si vede qui il cofanetto per il berretto del Volto Santo, marchiato “PC”; ai due orafi sono da ascrivere anche alcuni splendidi calici, realizzati a fusione, decorati con cherubini aggettanti.

Analoga testimonianza dell'alto livello tecnico delle manifatture lucchesi portano i tessuti qui esposti, primo fra tutti il grande baldacchino, datato 1545, con un motivo ad ovali a doppia punta diffuso in tutta Europa. Più legato a prototipi lucchesi appare il velo omerale, mentre il telo in broccatello introduce un disegno e una tecnica che caratterizzeranno tutta la produzione lucchese del Seicento. Siciliano è invece il grande e noto tappeto in felpa di seta, donato al Capitolo della Cattedrale dal cardinale Spinola, vescovo di Lucca dal 1657 al 1677.

In questa sala ha trovato posto anche una bella Crocifissione, proveniente dalla chiesa di S. Giovanni, opera certa di Francesco Vanni, pittore senese apprezzato anche a Lucca, dove si sono conservate alcune sue opere.

La suppellettile liturgica della Cattedrale esposta nella VI sala offre un conciso quanto chiaro spaccato della produzione orafa lucchese tra la fine del Seicento e gli inizi dell'Ottocento. Un ornato calice dal sottile sbalzo esemplifica, assieme ad una croce processionale, ad una pisside e alla Madonna del Soccorso, la produzione di Giovanni Vambré il Vecchio, argentiere fiammingo trapiantato a Lucca dove, a partire dagli anni settanta del XVII secolo, porta la sua esperienza del barocco floreale, fondando un'attiva bottega, continuata poi dal figlio Michelangelo e dal nipote Giovanni. A quest'ultimo si deve la base del grande reliquiario realizzato in due tempi, la cui parte superiore è da ascrivere al 1708 ed a Paolino Batoni, padre del più celebre pittore Pompeo.

Il nuovo gusto “architettonico” del giovane Vambré si coglie appieno nei due reliquiari ad urna, realizzati nel 1753: è probabile che il cambiamento linguistico percepibile in essi sia originato dall'educazione romana da lui ricevuta. È certo però che la sobrietà di linee e l'inserimento dei repertori architettonici nella suppellettile liturgica, operata da questo orafo, rimangono una fondamentale caratteristica della produzione lucchese fino alla fine del secolo XVIII e agli inizi del successivo. La condividono infatti non solo gli altri quattro calici esposti, pur dovuti ad altri maestri, ma anche gli oggetti ottocenteschi qui presentati: la guantiera, l'acquamanile, il candelabro a tre fiamme, le tre cartegloria. Cartegloria e candelabro testimoniano anche i mutamenti politici intervenuti a Lucca: infatti al marchio “pantera” che a partire dal 1743 aveva garantito, come bollo di Stato, la qualità dell'argento, si sostituisce prima “l'albero della libertà incrociato da due bandiere”, scelto nel 1801 dal governo provvisorio “rivoluzionario” insediato dai francesi, e poi le sigle “LP” e “G” scelte al momento della costituzione del principato di Lucca e Piombino, affidato a Felice Baciocchi.

Se la lavorazione del metallo conosce a Lucca proprio nel XVIII secolo il momento di più chiara organizzazione, altrettanto non si può dire della manifattura tessile che, dopo gli splendori medievali, stenta a tenere il passo con la concorrenza di Venezia e Firenze e poi della Francia. Le pianete qui raccolte, inoltre, documentano per il Seicento la tendenza, del resto ampiamente diffusa, a privilegiare l'opera a ricamo rispetto a quella tessile. Nella stessa sala sono poi presentate due tele per le quali, in virtù delle loro dimensioni ridotte, si può supporre un'originaria collocazione nella sacrestia o nella Sala Capitolare della Cattedrale. Se il Santo vescovo è da riferirsi a Tiberio Franchi, il Volto Santo - che indossa una corona identica a quella realizzata da Ambrogio Giannoni nel 1655 - è stato attribuito a Giovan Domenico Ferrucci, fiorentino di nascita e formazione, ma intensamente attivo a Lucca nei decenni centrali del Seicento.

“MILLEQUE SEX DENIS TEMPLUM FUNDAMINE IACTO/LUSTRO SUB BINO SACRUM STAT FINE PERACTO”: così recita l'iscrizione murata nel portico della Cattedrale, che ricorda come l'edificio, le cui fondamenta erano state gettate nel 1060, fu portato a termine nel giro di un decennio. Di esso, voluto e consacrato da Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca e papa col nome di Alessandro II, quasi nulla rimane oggi. Ancor maggiore importanza riveste quindi la protome esposta nella VII sala. Le altre sculture qui raccolte si riferiscono invece agli ampliamenti e alle trasformazioni conosciute dalla Cattedrale a partire dal Trecento e conclusesi nel Quattrocento avanzato che l'hanno portata all'assetto attuale.

Opera della maestranza di cultura lombarda attiva nel transetto nord appare il così detto Fra Fazio, già posto all'angolo fra transetto e fianco nord, nel quale si è proposto di identificare Francesco Guinigi, procuratore di un generale rinnovamento dell'edificio a partire dal 1372. La statua si caratterizza per la scarsella rigonfia di denaro e per la mano levata nell'atto di offrire una moneta e quindi, verosimilmente, rappresentazione simbolica del contribuente alle spese per la costruzione della Cattedrale. Dagli ordini alti del transetto vengono invece le due protomi maschili e il teschio di Adamo, che fanno parte dei lavori portati avanti negli ultimi anni del secolo e nel primo ventennio del Quattrocento da Antonio Pardini, architetto e scultore originario di Pietrasanta, cui fu affidata la direzione del cantiere della Cattedrale a partire dagli anni ‘90 del Trecento. Nel cantiere da lui diretto operarono molti scultori tra i quali il più celebre è certamente Jacopo della Quercia, cui si deve il grande Apostolo che coronava il secondo contrafforte del fianco Nord; il progetto originario prevedeva che tutti i contrafforti fossero completati da sculture, ma per quel che si sa le uniche realizzate sono quelle qui esposte.

Alle novità di un amico e collaboratore di Jacopo, Francesco di Valdambrino, anch'egli secondo alcuni presente nel cantiere del S. Martino, si avvicinano invece i due piccoli Profeti già ai lati della nicchia sul secondo contrafforte. Ad un'epoca avanzata, da contenersi comunque entro il 1480, si data il completamento della parte alta della nave centrale verso la facciata, area da cui provengono le protomi femminili qui presentate, ormai dichiaratamente classicistiche.

Parte integrante dell'itinerario di visita al museo è l'oratorio di S. Giuseppe, l'unico resto del convento delle monache Gesuate, fondato nel 1518. L'esterno dell'edificio propone la tipica struttura a oratorio con le due finestre a grata ai lati della porta centrale, ornata da una terracotta invetriata della prima metà del Cinquecento con la Madonna tra i santi Giuseppe e Girolamo.

L'interno, a nave unica con volta a crociera, fu trasformato verso la metà del XVII secolo con l'inserimento di un ricco apparato in legno intagliato e dorato: una cantoria addossata alla controfacciata e una più piccola sul fianco sinistro, due altari laterali e la decorazione della tribuna con l'imponente altare maggiore. Al centro di quest'ultimo è inserita una tavola con i Santi Paolo, Giuseppe e Girolamo riferibile a Lorenzo Zacchia, una delle figure più rappresentative della cultura pittorica lucchese di fine Cinquecento. Il dipinto risale ad una fase abbastanza giovanile dell'attività di Lorenzo, che, pur tenendo presenti gli insegnamenti di Zacchia il Vecchio, suo maestro, dimostra qui di aprirsi alle influenze senesi e fiorentine più aggiornate.

La tavola appartiene dunque ad un momento precedente alla ristrutturazione seicentesca, mentre coerente cronologicamente con l'apparato ligneo è la tela con l'Immacolata Concezione tra i santi Carlo Borromeo e Ignazio di Loyola del lucchese Matteo Boselli, ubicata sull'altare della parete sinistra dell'oratorio. Allo stesso momento risale l'esecuzione delle due tele con Santa Caterina e Sant'Agnese, del pittore lucchese Girolamo Scaglia (oggi rimane integra solo la Santa Caterina, posta ora all'altare del fianco destro). Questa soluzione ha permesso di lasciare in vista, riquadrata dalle incorniciature lignee che contenevano i due dipinti, l'originaria decorazione della chiesa. Nel corso dei lavori di restauro intrapresi per la creazione del museo è stata infatti rinvenuta sulla parete absidale una decorazione ad affresco della seconda metà del Cinquecento, opera di un eclettico artista locale. Nella parte alta della tribuna si vede l'Incoronazione della Vergine, nascosta parzialmente dalla sommità dell'apparato ligneo. Più in basso l'Apparizione dell'angelo a Giuseppe e la Fuga in Egitto occupano la posizione assunta poi dai dipinti dello Scaglia.

Nell'ultima sala sono esposti i preziosi ornamenti della grande statua-reliquiario che si conserva nel Duomo di Lucca, raffigurante il Cristo Vivo sulla croce vestito di colobium, comunemente nota come il Volto Santo o la Santa Croce, la cui attribuzione oscilla tra la fine dell'XI secolo e il XII secolo. Nel corso del tempo l'immagine del Cristo si è compenetrata con la città ad un punto tale da assumere il ruolo di re e da comparire sulla moneta cittadina.

La devozione e la pietà dei lucchesi dovette esprimersi fin dall'inizio nell'ornare il Volto Santo: già nel secolo XII infatti Boncompagno da Signa parla, oltre che di vesti policrome e dorate, di una corona, di calzari e di una fascia che cingeva i lombi del simulacro. Fin dal Trecento alla statua veniva apposto un fregio a edicole da cui si affacciano busti di santi e la Vergine col Bambino a figura intera. Se per la struttura architettonica si può ipotizzare una datazione alla fine del Trecento, per alcuni busti e la Vergine, aderenti a modelli scultorei della scuola di Nicola Pisano, appare più appropriata una collocazione sul principio del secolo. Se il calice dall'ampia coppa che sta ai piedi del Volto Santo e i semplici calzari in argento sembrano essere volutamente fedeli a più antichi originali perduti (i calzari attuali recano il marchio di un orafo attivo agli inizi del Seicento, Paolo Mazuchi), la corona e il collare in oro sono una creazione tutta seicentesca.

La nuova corona venne realizzata in sostituzione di un'altra precedente commissionata ad un orafo di educazione romana, Ambrogio Giannoni (v. sala V) e imposta nel 1655 al simulacro, nel corso di una solenne cerimonia, voluta e finanziata dal governo della città. Fu una vera e propria incoronazione, nel corso della quale il Gonfaloniere di Lucca consegnò “al santissimo Volto dentro un bacile tre chiavi d'argento in significazione delle chiavi delle tre porte della città”. A queste chiavi se ne aggiunse poi agli inizi dell'Ottocento una quarta a simboleggiare Porta Elisa aperta in quel torno d'anni. Alla sontuosità che veniva così a circondare il Volto Santo, nel 1660 entra a fare suggestivo contrasto un raffinato gioiello, munifico dono di una donna lucchese, Laura Nieri Santini. Vero capolavoro di oreficeria, specie nella parte tergale - un fitto verziere di smalti - il gioiello mostra uno straordinario aggiornamento al più moderno gusto francese, trovando i più suggestivi confronti con l'opera di Gilles Légarés, orafo alla corte del Re Sole. Infine, ancora nell'Ottocento, si sottolinea la qualificazione imperiale del Volto Santo con uno scettro, eseguito dal lucchese Pietro Casali nel 1852

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INDIRIZZO: via Arcivescovado - Lucca
ORARIO: aprile-ottobre: feriali 10-18, festivi e prefestivi 10-19; novembre-marzo: feriali 10-14, festivi e prefestivi 10-17
INGRESSO: L. 5.000; ridotto L. 3.000; cumulativo con Sacrestia del Duomo e monumento di Ilaria del Carretto e Battistero e chiesa dei SS. Giovanni e Reparata: L. 7.000, ridotto L. 4.000
INFORMAZIONI: tel. 0583/490530

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