Toscana
Carcere: Teatro e vita, così nasce il riscatto
Attori non per gioco, ma per ritrovare se stessi e intravedere un barlume di speranza in una vita che sembra averla persa del tutto. È l’esperienza di decine di reclusi dei penitenziari toscani, frutto di un progetto regionale «Teatro in carcere» avviato nel 1999, che pone la nostra regione all’avanguardia non solo in Italia ma anche in Europa. A riprova di questo, lo scorso gennaio, con il patrocinio dell’Unione Europea, si tenne a Volterra un seminario internazionale di tre giorni, ideato da Armando Punzo del «Centro nazionale teatro e carcere di Volterra», che fu una sorta di «stati generali» su questo tipo di esperienze con il confronto tra maestri di teatro, artisti, formatori ed operatori giudiziari provenienti da tutto il continente.
Il progetto regionale coinvolge dieci sperimentazioni nelle strutture carcerarie di: Volterra, Arezzo, S. Gimignano, Empoli, Sollicciano, Massa, Porto Azzurro, Pisa e Firenze («Gozzini» e «Meucci»). L’unica che riguarda minori è quella dell’Istituto penale minorile «Meucci», affidata all’Associazione culturale O.S.A. Teatro, guidata da Claudio Suzzi. A lui abbiamo chiesto di spiegarci come nasce e vive un laboratorio teatrale tra le sbarre.
D’accordo Suzzi. Ma cosa può fare il teatro per chi è detenuto?
«Il teatro permette una conoscenza di se stessi più approfondita e quindi di caratteristiche e potenzialità che i detenuti hanno, come hanno tutti gli altri esseri umani».
Cosa vuol dire fare animazione fra le sbarre di un Minorile, come avete fatto in questi anni?
«L’animazione si sviluppa più in ambito ludico. Noi non facciamo animazione, facciamo un laboratorio tecnico, dove imparano a gestire la voce, a gestire il corpo nello spazio, in movimento. Si arriva anche a delle produzioni che hanno difficoltà grosse».
Come il «Signore delle mosche» (nella foto un momento dello spettacolo) che avete allestito ad ottobre al «Meucci»…
«Molti di quei ragazzi non conoscevano l’italiano e alcuni non sapevano neanche leggere e scrivere. Siamo andati lì mattina e pomeriggio per mesi, è un rapporto quotidiano che non può essere assimilato ad altri laboratori, ci sono più difficoltà da superare».
Ma il percorso qual è? Da dove cominciate?
«All’inizio si parte dal gioco espressivo, da quello di fiducia. Così si arriva alla messa in scena, che è già più complessa, perché devono imparare a memoria, devono provare e riprovare. Rimangono quelli più interessati, c’è una selezione naturale. Però il rapporto amicale con questi ragazzi diventa profondo. Mi sto rendendo conto che con i detenuti adulti è un po’ diverso, ma con i minori sono un po’ il fratellone maggiore».
Su cosa cercate di far leva?
«Io insisto sul rapporto tra teatro e vita. Dico al ragazzo: Se superi le difficoltà, se hai rispetto, se senti il senso dell’impegno all’interno del laboratorio teatrale questo può servirti per avere tutte queste cose nella vita fuori. Perché il teatro è una microsocietà. In carcere le differenze sono molto pesanti: ci sono gli italiani che non possono vedere i rumeni, i rumeni che non sopportano i marocchini… Creare un gruppo in un contesto come il carcere minorile è difficile. Ma il teatro ci riesce».
Che differenze ha incontrato tra il carcere di Trani, dove sta lavorando adesso, e il minorile di Firenze?
«Qui a Trani la maggior parte dei detenuti ha tra i 25 e 50 anni ed è italiana, invece al minorile sono per lo più stranieri e quindi si creano anche difficoltà legate alle differenze di cultura, di religione, di linguaggio, oltre a problematiche legate all’instabilità che un minorenne può avere. Molti di loro non hanno documenti, non sanno parlare italiano, non hanno una famiglia, non hanno niente… sono soli al mondo. Ci sono ragazzi che non conoscono neanche la loro età».
Quanto è diverso far teatro con dei reclusi?
«In un attore normale tutto passa per la mente, per il pensiero, per la tecnica. Tutto viene filtrato da una presa di coscienza intellettuale. Invece con questi ragazzi tutto passa da una necessità di espressione, dalla necessità di imporre la propria persona al mondo e di dire io ci sono, sono qui».
Il teatro li aiuta anche a reintegrarsi nella società?
«Questi ragazzi non vedono via d’uscita. Me lo hanno detto chiaramente: Quando usciamo di qui non sappiamo assolutamente cosa fare. Il nostro sistema non riesce a dar loro una prospettiva di non delinquenza. Il teatro invece dà uno spiraglio di esistenza al di là della delinquenza».
E quanto li cambia?
«Nei cinque mesi nei quali abbiamo preparato Il signore delle mosche quei ragazzi sono cambiati tantissimo. Perché la soddisfazione, l’emozione, l’adrenalina che ti viene prima di salire sul palco non ha paragone con nessun’altra emozione, con nessuna altra droga… Una volta uno mi ha detto: forse solo andare a rubare in un appartamento mi ha dato la stessa paura. Ce ne sono alcuni già usciti dal carcere che scalpitano per fare teatro e noi non abbiamo una struttura per aiutarli. Nel 2004, all’interno del progetto Dalle isole alle asole, con il quale volevamo creare una dinamica dal dentro il carcere al fuori, abbiamo allestito uno spettacolo tratto da una favola di Andersen, L’ombra, con sette ragazzi ex-detenuti (marocchini, tunisini, un tibetano…). Ed è stata un’esperienza bellissima».
Che però non riuscite a replicare…
«Pur avendo avuto tantissime richieste, sia dai ragazzi coinvolti che dai servizi sociali, non riusciamo a portarla avanti, perché non la finanzia nessuno. Così, al di là del piccolo intervento, dell’amicizia personale col singolo, non possiamo mantenere un intervento su larga scala».
Mi sembra di capire che la cosa vi addolora…
«Dire no ad un ragazzo che ti chiede: Per favore fammi fare teatro, per favore tienimi impegnato, perché se no finisco di nuovo a spacciare, ti fa star male. Dire troppe volte di no a questi ragazzi, che già se lo sono sentiti ripetere tante volte, non me la sento».
Le istituzioni vi sono vicine?
«Ci sono istituzioni, dalla Regione al ministero di giustizia, al Quartiere 1 di Firenze, che ci seguono e ci sostengono e quello che abbiamo fatto è grazie anche a loro. Ma non capiscono che il teatro non è fatto da un singolo operatore. La mole di lavoro è grande, abbiamo a che fare con problematiche difficili, dure. Per noi è importante avere un riconoscimento lavorativo, che ci dia sicurezza e stabilità. E poi non abbiamo neanche una sede dove provare…».
Quest’attività in carcere è dura. Ci sono state anche sconfitte?
«Certamente, come aver perso per strada dei ragazzi che avevano un grande talento. Ad esempio il protagonista di Caro Theo, quello che interpretava Theo Van Gogh, aveva veramente talento. Solo che lui è ora tornato a Genova. Abbiamo provato a contattare i servizi sociali, ma è stato inutile».
Com’è il Natale in un carcere minorile?
«È un momento di maggiore attenzione, in cui tutti i laboratori e tutti gli operatori hanno logicamente un occhio di riguardo. Si creano occasioni di presentazioni di lavori… E poi si fa festa. Per questi ragazzi, anche una piccola festa, un dolce, un po’ di musica, significano molto. Le feste sono sempre un momento per farli sentire considerati, persone come gli altri ragazzi».