Toscana

Cittadini si nasce a scuola

di Mauro Banchini

Era inevitabile. Inevitabile che a colpire di più, nella sessione plenaria dell’affollato convegno Regione Toscana/Giunti Scuola («A scuola nessuno è straniero. Nuovi cittadini nell’Italia plurale») sulla presenza degli immigrati nelle aule scolastiche di un Paese sempre più popolato da «stranieri», fossero proprio Sara e Hassan. Due giovani delle seconde generazioni: entrambi stranieri, musulmani, capaci di parlare un italiano perfetto. Anche perché, entrambi, nati una ventina d’anni fa in Italia.

«Difficile – per Sara, salita sul palco del Palacongressi di Firenze con velo islamico – molto difficile sentire l’Egitto come mia patria». Per non parlare di Hassan («Salve sono Hassan, studio a Milano, sono biellese, sono marocchino, mi sento italiano, ma anche marocchino, mi sento musulmano ma soprattutto milanista»). Ha fatto sorridere, Hassan, ricordando l’imbarazzo che in molti ancora proviamo davanti a ragazzi come lui («Ma avete cammelli in Marocco? Ma tu mangi cuscus tutti i giorni?»): torna dai parenti in Marocco ma, dopo un mese che sta lì, «sclera» e non vede l’ora di bere «caffè italiano» ricordando poi la vergogna provata, anni fa, in quella sua classe media quando alla notizia che era sparito il Dvd «tutti si voltarono verso me e mio fratello».

Ma ricordando anche che adesso, quand’è in Marocco, gli capita di lasciare il resto in mancia e allora gli dicono una frase («Ma tu sei emigrato …») che lo fa inorgoglire essendoci lui molto grato perché, come dice un loro proverbio, «chi mi insegna una lettera, io divento suo servo». E noi, in quelle scuole, gli abbiamo insegnato non solo una lettera ma una lingua intera: quella di Dante Alighieri.

Entrambi, a scuola, hanno trovato insegnanti validi: bravi docenti che – come ha sintetizzato Graziella Favaro, responsabile del convegno, riportando una frase del cardinale Carlo Maria Martini – sanno che «chi si sente orfano nella casa dei diritti, finirà per sentirsi tale anche nella casa dei doveri». E questa può essere presa a emblema del convegno. Insieme a un brano di un messaggio, ai giovani, del presidente Napolitano. «Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni: chiusure, arroccamenti, faziosità, obiettivi di potere, personalismi dilaganti: apritevi all’incontro con interlocutori, rappresentativi di altre e diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell´incertezza, il vostro anelito di certezza».

Oltre mille gli iscritti al convegno, prevalentemente insegnanti da tutta Italia, che la mattina si sono divisi in 5 gruppi di lavoro per ritrovarsi, certo diminuiti di numero, in «plenaria» nel pomeriggio. «Se siamo riusciti a stare insieme fra siciliani e lombardi oltre che fra pistoiesi e pratesi, ciascuno con le proprie differenze, perché non dovrebbe essere possibile, partendo dalla scuola, costruire una nuova identità nazionale basata anche sulla valorizzazione delle diverse identità che ormai formano l’Italia dopo 150 anni di unità interna?». La domanda iniziale – intrigante nei giorni in cui qualcuno, addirittura un ministro della Repubblica, usava la lingua della «secessione» –  l’ha posta Stella Targetti, vicepresidente di Regione Toscana.

A due anni da una analoga iniziativa e con un significativo riconoscimento (una medaglia all’Italia plurale, 150 anni dopo l’unità) arrivato dal Quirinale, il convegno ha tentato di concentrarsi su riflessioni positive: come valorizzare le conquiste socioculturali che derivano dal processo di inclusione delle differenze.In ogni sessione sono stati presentati casi concreti: buone pratiche condotte in scuole di un Paese raffigurato, nel logo, come uno stivale coperto da volti di bambini o adolescenti di evidente origine «straniera». Ne citiamo due: l’insegnamento dell’italiano affidato a un rapper e al ritmo metropolitano del rap; il confronto di fiabe per capire com’è trattata la figura dell’orco nelle diverse culture. Ma di «buone pratiche» ne sono state illustrate almeno 20, con l’obiettivo di diffondere risposte su cinque profili: come l’integrazione può cominciare dai più piccoli, come insegnare la lingua italiana in un contesto multilingue, come gli studenti stranieri nella secondaria si preparano al loro futuro, come la scuola può aiutare in termini di cittadinanza, come la scuola può intrecciare i saperi in curricula interculturali. Prevalentemente al femminile la platea e tutti in rosa i saluti introduttivi: Stella Targetti, Angela Palamone, Carla Ida Salviati, Marina Bertiglia.

È stata l’occasione, per Regione Toscana, di illustrare alcuni progetti sui  «Piani di gestione della diversità», con euro finanziamenti. Al termine gli insegnanti coinvolti saranno oltre duemila.  Fra i riferimenti normativi anche una delibera (la n. 530 del 2008, nota come «delibera di San Rossore») approvata a conclusione di uno dei meeting estivi organizzati dalla Regione in quella località. La delibera fu varata nell’anno in cui ricorreva il 70° anniversario del decreto che, firmato nel settembre 1938 proprio nella tenuta di San Rossore, portava le disposizioni fasciste «per la difesa della razza».

Sono anche stati diffusi numeri che fotografano il fenomeno: se nel 1989/1990 gli alunni stranieri erano, in tutta Italia, meno di 13.700 e diventarono dieci anni dopo quasi 120 mila, nell’anno scolastico 2009/2010 il loro numero è salito a circa 674.000 e si stima che nell’anno appena iniziato (2011/2012) siano circa 750 mila. In Toscana nell’anno scolastico 2010/2011 (l’ultimo di cui si posseggono dati certi) il totale degli studenti iscritti nelle scuole (pubbliche statali e paritarie) della Toscana sfiorava le 490 mila unità (489.959) di cui circa 56 mila (56.088) stranieri con una percentuale dell’11,4.

I più piccoli (scuole di infanzia) superano le 10 mila unità: sono 10.519 i bambini stranieri su un totale di 95.626 e con una percentuale dell’11%. La percentuale sale al 12,8% nelle scuole primarie toscana: su un totale di 154.949 gli studenti stranieri sono quasi 20 mila (per la precisione 19.797), mentre nelle secondarie di primo grado su 95.074 studenti iscritti la percentuale degli stranieri arriva al 13,4% (in cifra assoluta 12.738) e nelle secondarie di secondo grado su 144.310 studenti iscritti gli stranieri sono 13.034 (il 9%).

Fra le province toscane la top ten degli studenti stranieri (sempre nell’anno scolastico 2010-2011) spetta a Prato. Ciò per tutte le scuole, in ogni ordine e grado: la percentuale complessiva degli studenti stranieri (rispetto a una media toscana dell’11,4%) sale al 17,9% e questo significa che su 35.882 studenti iscritti in totale ben 6.438 erano, nel precedente anno scolastico, di origine straniera. All’estremo opposto, in Toscana, le scuole della provincia di Massa-Carrara: qui la percentuale degli stranieri superava il 7% fermandosi a quota 7,4 (1.920 studenti stranieri su un totale di 25.780).

L’intervista: Uscire dagli stereotipi, ripensare l’educazionedi Federico Fiorentini

Venerdi 30 settembre il Palazzo degli Affari e dei Congressi di Firenze hanno ospitato la seconda edizione del convegno nazionale «A scuola nessuno è straniero», patrocinato dalla casa editrice Giunti Scuola e dalla Regione Toscana. Articolato in cinque sezioni parallele mattutine e una plenaria pomeridiana, l’incontro (al quale si sono iscritti 1.166 insegnanti da tutt’Italia) ha avuto l’obiettivo di «mettere a confronto le “buone pratiche” di inclusione adottate da chi opera nella scuola italiana», come spiega la pedagogista, e coordinatrice della giornata, Graziella Favaro.

«La Fondazione Agnelli – prosegue Favaro – calcola che nel 2015 circa il 17% degli alunni che frequenteranno la scuola primaria sarà figlio di immigrati, nato qui o giuntovi in età prescolare. Sempre più quindi nelle classi abbiamo e avremo a che fare con bambini “stranieri” giuridicamente, ma italofoni, nati e cresciuti qui e che hanno un percorso scolastico simile a quelli italiani». Negli ultimi quattro/cinque anni si è assistito a un assestamento nel numero di studenti non di madrelingua, «dato che diminuiscono i neoarrivati, mentre aumenta il numero dei ragazzi nati in Italia, le cosiddette “seconde generazioni”».

Favaro insiste sul fatto che si tratti di alunni «italiani de facto, anche se non ancora de iure», e che il loro massiccio incremento nelle classi debba implicare «almeno tre cambiamenti nel progetto della scuola e nell’atteggiamento degli insegnanti»: anzitutto «il linguaggio che adoperiamo oggi dovrà modificarsi per guardare al futuro; niente più “alunni immigrati”, “extracomunitari”, i “nostri” studenti contrapposti agli “altri” ecc…». Secondo punto, di particolare rilievo, «colmare il gap nei percorsi formativi fra studenti italofoni e non. Oggi è normale inserire chi arriva da un altro paese in una classe inferiore di uno o due anni rispetto alla propria età: il 70% degli studenti non italiani delle superiori vive una situazione di ritardo». Inoltre, «dobbiamo demolire lo stereotipo di una “immigrazione miserabile”, confinando questi ragazzi a percorsi di studio superiore più brevi o comunque meno esigenti dei loro coetanei italiani». L’80% dei giovani stranieri, infatti, sceglie istituti tecnici, e solo il 20% i licei; mentre le iscrizioni dei figli di italiani sono esattamente l’opposto: quattro quinti nei licei e solo un quinto nelle altre scuole.

Ultimo punto delineato da Favaro «il riconoscimento delle normali differenze di tutti e di ciascuno, a partire dall’idea stessa di cittadinanza». Una cittadinanza «non più ricevuta in eredità dai genitori, ma conquistata in maniera attiva e consapevole, e che può aiutare anche gli italiani di nascita, portandoli a riflettere sul significato di un’identità non più monolitica e indiscutibile come un tempo». Tuttavia, «esiste una discrepanza troppo ampia fra l’importanza che noi attribuiamo all’educazione alla cittadinanza e le difficoltà burocratiche per diventare italiani dal punto di vista giuridico: oggi anche chi nasce nel nostro paese può acquisire la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno, dimostrando di essere stato residente in Italia ininterrottamente per tutta la vita». Motivo per cui «questi ragazzi vivono in una situazione di ambivalenza, segnati dalla percezione costante di essere al tempo stesso dentro e fuori la comunità in cui vivono».

Il convegno ha cercato di offrire delle risposte a questi problemi organizzando in contemporanea cinque seminari, ognuno dei quali incentrato su un tema specifico: «L’inserimento dei bambini piccoli, sempre più importante con il diffondersi delle seconde generazioni». Viene poi la questione linguistica, «legata non tanto alla comunicazione, perché in questo campo i ragazzi non incontrano problemi, quanto all’italiano in qualità di lingua di delle materie scolastiche, i cui termini sono spesso desueti». E ancora la creazione di quelle che Favaro definisce «finestre interculturali», «che comprende sia il fornire ai ragazzi stranieri la possibilità di coltivare la propria cultura d’origine, sia lo schiudere gli orizzonti dei giovani italiani facendo loro conoscere realtà differenti, e favorendo così un incontro fra mondi non più impermeabili». Infine le già citate tematiche legate alla percezione della cittadinanza e all’orientamento dopo le scuole medie, «liberando la società da atavici pregiudizi socio-culturali e portando finalmente questi giovani a esprimere tutte le loro grandi potenzialità nei licei e nelle università».

La storia: Hassan e Sara e l’amore per due patrieSorta di incarnazione dei temi trattati durante il convegno «A scuola nessuno è straniero», all’interno del Palazzo dei Congressi erano presenti anche due giovani di genitori non italiani che hanno svolto parte del proprio percorso pedagogico in Italia.

Hassan El Aouni, nato a Casablanca e arrivato a Milano nel 1998, all’età di dieci anni, e Sara Sayed, egiziana nata in Italia e, dopo un’infanzia trascorsa a fare la spola fra Europa e Africa, residente anche lei a Milano dall’età di otto anni. Ambedue attualmente studenti universitari, sono la testimonianza di un’integrazione scolastica almeno apparentemente fortunata.

Hassan, iscritto alla Facoltà di Scienze dell’Educazione di Milano Bicocca dopo aver frequentato un istituto tecnico, ricorda il periodo di adattamento linguistico al suo nuovo paese come «non particolarmente difficile: ero molto giovane, e dopo sei mesi comunicavo e giocavo senza problemi a calcio con gli altri ragazzini». Più ardua, invece, il percorso di definizione della propria identità culturale: «Se imparare l’italiano è stato un processo naturale, coniugare le mie origini marocchine al mio presente da residente in Italia è stato tutt’altro che semplice. In famiglia, per esempio, abbiamo parecchie difficoltà nel mantenere l’arabo, nostra lingua d’origine, ed esercitare contemporaneamente l’italiano».

Sia Hassan che Sara (che parla con leggero accento milanese e, dopo il liceo linguistico, segue il primo anno della laurea magistrale in Scienze Cognitive) si considerano però particolarmente fortunati: «Quando frequentavamo le medie, ormai dieci anni fa, eravamo fra i pochissimi studenti di origine straniera. Non solo non abbiamo incontrato problemi di adattamento, ma i professori – che ci vedevano un po’ come mosche bianche – ci facevano sentire “coccolati”, speciali». Attenzioni addirittura eccessive – talvolta – se Sara riconosce che «per una ragazza timida come me qualche volta tutta questa premura era fonte di imbarazzo. Ma anche un forte incentivo a impegnarsi per eccellere».

Hassan, che pure non ha ancora ricevuto la cittadinanza italiana, si sente «100% italiano e 100% marocchino. Sono le mie due patrie, e le amo entrambe. Il problema nasce invece dalla percezione esterna: per gli italiani rimango un marocchino, e in Marocco vengo avvertito come italiano». I due giovani immaginano il proprio futuro nel nostro paese, «senza dimenticare le nostre terre d’origine, dove amiamo ritornare e che ci permette di completare un’identità altrimenti parziale».

Richiesta di un consiglio per migliorare l’integrazione nel sistema scolastico italiano, Sara – riandando alla propria esperienza – auspica una «sensibilizzazione delle le famiglie italiane su mondi culturalmente, ma soprattutto religiosamente, diversi dal loro. Il mio credo (Sara, che ha fatto il liceo in un istituto paritario cattolico diretto da suore, porta il velo dall’età di sedici anni) è sempre stato rispettato, ma – soprattutto i genitori dei miei compagni – lo percepivano come qualcosa di lontano anni luce. I mei coetanei invece, mentalmente più malleabili, mi hanno fatto pesare molto meno questa differenza. Fornire maggiore informazioni sulle altre realtà aiuterebbe sia gli italiani che gli stranieri». Hassan, poi, auspica una «stabilizzazione della situazione degli immigrati, spesso costretti a tornare nelle loro terra d’origine nel momento in cui scade un permesso di soggiorno troppo difficile da ottenere. Una precarietà che priva molte famiglie della loro serenità».

Federico Fiorentini