Toscana

Detenzione e recupero

Così il miele rende possibilela vita del dopo celladi Andrea BernardiniPiergiorgio, genovese, 60enne, si è fatto sei anni di carcere per rapina. È uscito dalla casa di reclusione di Massa nel 2003. Non ha una famiglia, solo la mamma: «ma con lei mi sento solo una volta al mese». Umberto, 37 anni, di Potenza, la galera l’ha conosciuta da ragazzino. Sembrava aver imparato la lezione ed invece… l’ultimo furto gli è costato 4 anni di cella e dieci mesi di arresti domiciliari. La moglie lo ha lasciato e con lei i tre figli, Giuseppe, Chiara e Valerio: «Adesso posso solo risalire la china».

Due storie tra tante. Vissute dai ragazzi accolti da Mauro e Norina Cavicchioli nella loro casa di Mulazzo, pochi km a sud di Pontremoli, in Lunigiana. Loro, i referenti in Toscana dell’associazione papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, un senso alla loro vita l’hanno trovato. Mauro, 51 anni, aveva un lavoro ben pagato alla centrale di produzione di energia elettrica del territorio, Norina, a casa, era impegnata nel difficile lavoro di mamma. Poi accadde qualcosa… Galeotto fu l’incontro con una comunità di tossicodipendenti della zona: «Il parroco mi chiese di portar loro una lavatrice – racconta Mauro –. Li incontrai, conobbi le loro storie. Avevano bisogno di tutto». Quella comunità abbandonò presto la struttura, ma Mauro e Norina cominciarono ad interrogarsi: «che fare se un povero bussa alla nostra porta?». In cerca di una risposta, Mauro prese ad impegnarsi nella Caritas di Pontremoli. «Allora ero ateo, la conversione religiosa sarebbe venuta dopo».

Poi l’incontro con il carcere, l’imbarazzo nel veder uscire dalle anguste celle quei detenuti con cui tanto si era parlato di come fosse la vita fuori: «sì, ma fuori verso dove?». Già, verso dove? I coniugi Cavicchioli fecero spazio nella loro casa, anzi la ampliarono per far posto a nuovi ragazzi. Oggi alla casa famiglia Giovanni XXIII abitano in venti: ex detenuti, detenuti in stato di detenzione domiciliare o in affidamento; e con Mauro e Norina, le rispettive madri, i figli naturali Lisa, Michele e Francesca e l’ultima new entry Lorella, in affidamento. Mauro ha deciso di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente ai suoi ragazzi. E con loro ha costruito una interessante attività economica: si chiama il Pungiglione, è una cooperativa sociale di tipo «b» e produce l’unico miele di origine protetta (dop) certificato in Italia. I ragazzi di Mauro e Norina lavorano in un vecchio capannone (ora in fase di ristrutturazione) dove un tempo si fabbricava la dinamite: rendendo arsenale di pace ciò che era arsenale di guerra.

Perché il miele? «Io e mia moglie coltivavamo, in gioventù, l’hobby della produzione di miele. Fu un ragazzo della nostra comunità ad incoraggiarci: «voi tornate tra gli alveari, io, che so di falegnameria, mi occuperò di costruire le arnie». Quello che iniziò quasi per scommessa oggi è una bella realtà: il miele di acacia e di castagno dop della Lunigiana, ottenuto grazie a tecniche di produzione biologiche, è conosciuto in tutto il Paese, grazie alle grandi catene di distribuzione commerciale (Esselunga, Coop, Standa). Al «Pungiglione» se ne confeziona 400 quintali all’anno. Ma qui, nel reparto di falegnameria, si realizzano anche tremila arnie all’anno. Alla cooperativa «Il Pungiglione» fanno riferimento una quarantina di altri apicultori del territorio protetto dall’Unione Europea (la dop va da Pontremoli a Fivizzano, passando per Aulla, Fosdinovo, Fivizzano).

Intanto i ragazzi di Mauro e Norina crescono in autostima, si sentono accolti, imparano ad amare. Merito della comunità, certo, ma anche di tutti quegli enti che hanno creduto sin dall’inizio in questa iniziativa: l’Ente Cassa di risparmio di Firenze, le fondazioni della Cassa di risparmio di Carrara, della Spezia, di Lucca, del Monte dei Paschi di Siena, la Fondazione Bancaria. L’Unione Europea, la Regione, la comunità montana della Lunigiana, il Ministero di Grazia e giustizia e la Caritas italiana.

A Livorno c’è anchechi lavora alla coopDI GIANLUCA DELLA MAGGIORECarceri sovraffollate, strutture inospitali, aumento dei suicidi in cella. Tinteggiando così il sistema penitenziario italiano resta difficile intravedere sfumature di speranza. Ma segnali in controtendenza ci sono e non hanno a che vedere con richieste di amnistia. A Livorno ad esempio si è appena concluso un corso di formazione professionale per dieci soggetti in misura alternativa: dopo 140 ore di lezione e 160 di stage quattro ragazzi sono già stati assunti per lavorare dietro un bancone di un supermercato.

«Spesso la cronaca si occupa di persone ammesse ai benefici delle misure alternative alla detenzione solo per segnalare quelle che ne fanno un cattivo uso, questa volta parliamo di gente che si è impegnata a fondo per riuscire a conquistarsi un lavoro». Salvatore Nasca, direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia di Livorno, non nasconde una venatura polemica nel presentarci quest’iniziativa sui generis promossa dal suo ufficio in collaborazione con la Provincia di Livorno, Ceis e Unicoop Tirreno. «Se c’è forte integrazione tra gli Uffici del ministero – dice Nasca – e i soggetti territoriali i risultati positivi arrivano e contribuiscono a far abbattere i pregiudizi e le chiusure da parte dei datori di lavoro e della società in genere».

Nasca ci tiene a sottolineare che i problemi del sistema penitenziario non vanno limitati ai problemi connessi al carcere. I numeri parlano chiaro: oggi i detenuti sono 59.523 ma i soggetti in misura alternativa arrivano a 50.000 (31.958 in affidamento in prova, 3.458 in semilibertà, 14.527 in detenzione domiciliare – dati 2005, fonte: Ministero della Giustizia).

Lo scorso maggio, ricorda Nasca, molti direttori ed operatori degli Uffici Esecuzione Penale Esterna hanno firmato un Appello per una nuova politica della pena. In uno dei punti clou si legge: «Da un lato il sistema della detenzione è sull’orlo dell’esplosione a causa del sovraffollamento degli istituti, dall’altro quello dell’esecuzione penale esterna è privo di una chiara missione ed in condizioni di tale povertà di risorse e operatori da spingerlo alla paralisi operativa». «Non si capisce – spiega Nasca – perché un detenuto in carcere costi allo Stato circa 250 euro al giorno e al momento i cui si decide di metterlo fuori per misure alternative non si predispone per lui neanche un euro come se improvvisamente non avesse più bisogno di niente». Ecco perché in questa delicata fase di passaggio di legislatura non ci si può limitare ad affrontare i problemi del sistema penitenziario con una mera richiesta di amnistia. Casomai – si legge tra le righe nell’Appello – è urgente deflazionare il ricorso al carcere potenziando le risorse dell’esecuzione penale esterna. Anche per evitare che la comunità interpreti l’amnistia concludendo che «meno carcere significhi meno sicurezza per i cittadini».

«Credo – dice Nasca – che la più bella definizione di quello che dovrebbe essere il nostro ruolo l’abbia data Giovanni Paolo II nel suo messaggio del 2000 per il Giubileo nelle carceri, che troppo spesso è stato travisato o strumentalizzato come una richiesta di amnistia. Il papa diceva che quando un reato viene commesso “la collaborazione al bene comune si traduce per ciascuno, entro i limiti della sua competenza, nell’impegno di contribuire alla predisposizione di cammini di redenzione e di crescita personale e comunitaria improntati alla responsabilità”». Vale a dire? «Che le misure alternative non sono un modo per liberare le carceri dal sovraffollamento, come spesso si dice, ma devono essere un percorso ben pensato improntato al recupero della responsabilità per chi ha commesso un reato. I condannati sono dei cittadini che hanno avuto un “incidente di percorso” e che hanno bisogno di essere aiutati – senza nessuna corsia preferenziale ma con un cammino serio di responsabilizzazione – a tornare ad essere cittadini come tutti gli altri, senza rimanere per sempre cittadini di serie B. Negli ultimi tempi sta sempre più prendendo corpo il concetto della cosiddetta giustizia riparativa che io condivido moltissimo: l’idea cioè che i condannati possano in qualche modo restituire almeno un poco del male fatto facendo lavori di pubblica utilità. Qui sta la vera rieducazione e in questo modo si allontanano molti pregiudizi nei confronti dei condannati: l’immagine del mostro comincia a sciogliersi. Vedere che un condannato fa qualcosa di utile alla collettività è importante per la gente comune che non penserà più ai detenuti solo come a coloro che scontano una pena vivendo totalmente a carico dello Stato ed è importante per il cammino di recupero della responsabilità da parte dei condannati stessi». Ed è l’unico in Italiadi origine protettaIl miele di acacia dop della Lunigiana è quasi incolore, dall’odore leggero, fruttato, simile a quello dei fiori e dal sapore decisamente dolce. Quello di castagno dal colore ambra scuro, odore forte e penetrante, sapore persistente. La Bioagricoop certifica la scrupolosa adesione dei produttori al disciplinare della dop e alle tecniche di produzione biologica. Dall’associazione Papa Giovanni XXIII nascono anche iniziative missionarie: la costruzione di un centro di formazione in apicoltura nella baraccopoli di Soweto in Kenia o la produzione di telaini in legno e la raccolta di cera biologica a Iringa, in Tanzania. Molti dei telaini che troviamo qui vengono proprio dall’Africa: «ogni 50 telaini acquistati, una famiglia della Tanzania può vivere decorosamente per un intero anno». Nel periodo estivo, «Il Pungiglione» promuove campi di lavoro e condivisione (per adesioni e informazioni telefonare al 0187. 850022 o 348. 2488124) Buono, infine, il rapporto di collaborazione con Toscana Miele, associazione di categoria che si occupa della gestione della mieleria e della commercializzazione del miele. Gorgona, vivere la vocazionesu un’isola carceredi Chiara DomeniciFrà Annalisa Brioschi ha 39 anni, è nata in un paesino dell’interland milanese e da più di dieci anni fa parte della comunità S. Spirito, un’Associazione di Consacrati che si ispira alla regola francescana e che dal 2002 è presente a Rosignano Marittimo. Ma frà Annalisa non abita in Comunità, da otto mesi il vescovo di Livorno monsignor Diego Coletti le ha affidato la cura pastorale degli abitanti dell’isola di Gorgona. La popolazione di Gorgona ammonta a circa cento abitanti: 65 detenuti, alcune guardie carcerarie con le loro famiglie ed altre 15 persone. I detenuti lavorano come muratori, fabbri, falegnami, oppure si dedicano alla pulizia delle strade, alla manutenzione dei locali e agli animali.

È un carcere ambito, perché qui si lavora e si vive praticamente liberi. Gorgona attualmente non ha un sacerdote fisso: il sabato i cappellani militari che risiedono a Livorno, a turno si recano sull’isola per celebrare la Messa, ma durante il resto della settimana c’è Annalisa a fare da catechista, da cappellano, e punto di riferimento per la fede. «L’idea è nata da sé – racconta frà Annalisa – avevo chiesto di poter fare un’esperienza di preghiera e solitudine e dopo altre proposte è emersa l’idea di Gorgona. All’inizio ero perplessa, tuttavia incoraggiata dal Vescovo e anche da una certa spinta interiore ho accettato». Vivere su un’isola carcere non è certo facile: «Sono qui solo da poco – continua – ma mi sono resa conto che Gorgona sta uscendo con fatica da un periodo difficile: i due omicidi del 2003, le conseguenti ripercussioni sul personale soprattutto dirigenziale e l’assenza per qualche anno di una figura religiosa stabile, hanno indotto nella gente un senso di incertezza ed anche una certa sfiducia nella storia. Tuttavia si stanno concretizzando, grazie alle iniziative dell’attuale direttore il dottor Salvatore Iodice, dei progetti orientati a “rilanciare” l’isola, valorizzando il lavoro dei detenuti e questo apre alla speranza».

«Personalmente – conclude – dopo aver superato le difficoltà iniziali: la fatica di vivere in un luogo che è un carcere, il quale richiede atteggiamenti regolati dalla prudenza, ed alcune limitazioni legate anche agli spostamenti tra l’isola e la terraferma, posso affermare di essermi piuttosto adeguata, cercando di proporre la mia figura con un certa cautela, quasi in punta di piedi, accettando le regole del carcere». La giornata di frà Annalisa è scandita dalla preghiera e dall’apostolato nel carcere. Ogni giorno incontra i detenuti, gli educatori, gli psicologi ed una volta a settimana anche i parenti dei detenuti. Ha preparato alcuni di loro alla prima Comunione ed altri alla Cresima.

Carceri, la Toscana scoppia