Toscana

Ecco come la gente si rovina giocando alle slot machines

«Belgioco» un tubo, quello dalle parti di Seano. A posto del «tubo» ci starebbe bene un altro tipo di attrezzo: quello, sonoro e femminile, che rimanda al nobile lavoro del falegname (o del taglialegna). In genere lo si usa quando possiamo parlare sboccato.

Si intitola così («Belgioco») la targa sull’ingresso di una sala giochi lungo la strada che da Firenze porta a Pistoia: subito dopo Poggio a Caiano, in territorio di Carmignano. Non vederla è impossibile, in particolare se è buio: sempre illuminata, con migliaia di lampadine secondo il gusto (diciamolo pure: tragico) dei cinesi che, in effetti, monopolizzano gli ingressi essendo questa… zona loro. Per Natale ci avevano piazzato anche una gigantografia con un asso di picche: inquietante pallone di plastica gonfiata che sarebbe parso fuori luogo perfino a Las Vegas.

Ci passo tante volte, davanti al «Belgioco», e mai mi era venuta la tentazione di entrarci. Adesso non posso più dirlo: è la prima delle sale che ho deciso di vedere per questo piccolo reportage sul rincoglionimento da gioco d’azzardo (il termine non sembri sboccato: a me pare davvero questo il termine giusto per definire chi si illude di vincere con questi aggeggi mangiasoldi).

A scanso di equivoci: sono uno che ogni tanto non disdegna di entrare in un Casinò «vero»: ma anche in questo caso lascio perdere le sale con slot per tentare il fascino retrò del tappeto verde. Il mio, dunque, non è certo un approccio moralistico.

All’ingresso della struttura avvolta da lampadine, un cartello in cinese. Entro. Mi trovo in uno spazio, sul buio andante, con una quarantina di slot. Metà sono nell’area fumatori, proprio sotto un cartello che definisce guasto l’impianto di condizionamento: chi gioca qui è immerso nel fumo e nel puzzo conseguente.

Scelgo l’area non-fumatori. Mi rendo conto che delle 25 persone presenti in questo tardo pomeriggio di un giorno qualsiasi a metà settimana, quasi tutti, tranne quattro, sono cinesi. Girello un po’. L’oscurità della sala è rotta dalle luci, sgargianti e colorate, che arrivano dalle slot: alcune hanno il sonoro, altre no. Ma in tutte la parte fondamentale sta nelle due fessure: una per le banconote, l’altra per le monete.

Il soffitto è zeppo di videocamere. Presumo che uno dei due (italiani) all’ingresso, se continuo a girellare prima o poi mi avvicinerà. Dunque prendo una banconota da 20 euro (mi sono prefisso di non spenderci un euro in più, che già 20 sono tanti) per farmelo cambiare in «gettoni». Sonora figuraccia: i due all’ingresso mi guardano come se avessi bestemmiato in chiesa indicandomi una delle tre macchinette per il cambio. La banconota sparisce dandomi in cambio 10 monete da 2. Scopro ora che non si gioca con i gettoni ma con i soldi. Le scritte regolamentari e ipocrite (da «gioca responsabile» a «vietato l’ingresso ai minorenni» per non parlare del gioco che «può dare dipendenza») ci sono tutte.

Fra le tante slot dai nomi evocativi, ne cerco una che faccia per me. Premessa basilare: non ho mai capito come si faccia a vincere in una slot e in base a quale triangolazione di figure uguali (i mitici BAR, BAR, BAR di un tempo) arrivi il segnale atteso. Osservo di soppiatto i miei fratelli di vizio: cinesi o italiani, nessuno ride. Facce tristi impegnate nel gioco, direi compulsivo, di pigiare un bottone che si illumina e che dopo una pigiata non si illumina più. Per illuminarlo ancora devi metterci altri due euro. E così via.

Scelgo «Torero», slot vicina al cesso. E faccio prestissimo, due o tre minuti, a lasciarci i primi 10 euro mentre il compagno cinese che ho accanto, impegnato con la «Tre moschettieri», continua a inserire banconote (da 50) che è un piacere. E a pigiare il bottone.

Cambio macchina e punto su quella chiamata «Las Vegas». So bene che la mia unica fortuna sta nell’amore: e la riprova arriva nei due minuti successivi, con la tasca totalmente svuotata. Girello ancora e mi piazzo dietro (non so se è corretto, presumo di no) a uno dei pochi connazionali: un vecchietto con giacca e pantaloni catarifrangenti. Mette i soldi, pigia il bottone, lo ripigia, lo tripigia e via così fra luci e suoni in una tristezza che a me pare deprimente. Idem la signora, anche lei italiana, bene vestita che «si diverte» con le caricature di attori, un tempo famosi, nella slot chiamata «Hollywood». Esco subito con una doppia voglia: respirare aria fresca e lavarmi bene la mani.

Dall’altra parte del paese, ma in comune di Signa, sta un’altra sala. Si chiama «VLT Poggio» e anch’essa è indicata con scritte cinesi. È nel mezzo fra una sala «da ballo» e un centro «di estetica». Ci faccio una puntata la mattina dopo, verso mezzogiorno. Con altri 20 euro e sapendo bene, stavolta, che la banconota va messa o nel cambia-monete oppure in una slot. Scelgo la prima opzione, sotto gli occhi della cinese che controlla l’ingresso. Qui c’è anche un bar. Non mancano i cessi. Anche qui tante le videocamere di sorveglianza. E tutte le scritte obbligatorie per legge a dimostrazione di perfetta legalità.

Poche le macchinette nella sala non fumatori, assai di più nell’altra. A quest’ora il popolo cinese dev’essere tutto al lavoro: c’è infatti poca gente (in ogni caso una dozzina. Che per mezzogiorno non mi pare poco) e in prevalenza italiani.

In omaggio alla madrepatria butto qualche euro nella «Big Italy»: una slot piena di colori sgargianti e di suoni metallici (come tutte le altre) dove le immagini di Verdi (quello di Aida) e di Dante (quello della Commedia) si alternano al Colosseo e alla povera Rita Levi Montalcini (sic). Inutile dire che gli «incroci» non funzionano e che in pochi minuti finisco quasi tutti i miei eurini.

Cambio slot e mi piazzo da «Robin Hood», il mito che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Mi pare l’emblema giusto di tutta una baracca che ruba (legalmente, ci mancherebbe altro) ai poveri per dare anche allo Stato con una tassa scelta, dai tapini, in modo volontario. Accanto mi trovo due settantenni, presumibilmente pensionati, che chissà da quanto buttano soldi in una macchina assai poco sensibile rispetto alle loro attese. Neppure loro si divertono – si vede bene – a passare il tempo così: a divertirmi sono io nel sentirli mandare, in modo molto colorito, a qual paese una macchina che chissà quanti altri soldi, alla fine, con il suo algoritmo programmato, a forza di 2 euri o di banconote da 10, li pupperà.

Ed è qui che si verifica il miracolo: con gli ultimi 2 miei euri, il vecchio Robin Hood evidentemente turbato dalla mia sfortuna verso l’azzardo mi concede l’onore di una vittoria. Ben 0,20 euro. Che tradotto sono 20 centesimi. Ormai padrone della tecnologia, riesco a capire come si fa: pigio il bottone intermittente e la slot mi stampa un ticket da 0,20 euro.

Esco con il ticket e, nel tornare a casa, vedo un bar. So che anche lì ci sono slot. Entro (si chiama – il bar – «Dolci tentazioni») e verifico che nella saletta tv – sotto il cartello secondo cui l’ingresso ai minori è non solo «vietato» ma anche «severamente» – di slot ce ne sono 8 più due macchinette cambia valute.

A quest’ora non gioca nessuno, ma due vecchietti seduti danno l’impressione di aver giocato fino a poco fa (più – credo – una donna che borbotta qualcosa).

Ultima tappa in cima al «colmo», davanti alla Villa. A fianco della casa madre fondata dalla beata Margherita (e della frequentatissima scuola elementare gestita dalle «Minime») c’è una tabaccheria che so sempre affollata: non tanto di fumatori, quanto di gente impegnata a «fumarsi» soldi in sogni (che, in questo caso, si chiamano «Lotto» con tutto il contorno di «grattini», «winforlife» et similia). Anche qui – fra chi gratta e chi spera di azzeccare 5 numeri su 40 per poter vincere «una casa» o 12 su 90 per poter vincere… «tutto» – ci stanno, immancabili, due slot.

Chissà quante altre ce ne sono in tutti i bar del paese. E in tutti i paesi e le città di un’Italia che nel 2016, in questa follia, di miliardi ne ha gettati ben 95: anche grazie – pare – a quasi mezzo milione di slot. Per non parlare del gioco on-line e di tutte le diavolerie (legalissime ma su cui, in tanti casi, sono le mafie a gettarci l’occhio) inventate e pubblicizzate per illudere i più fragili.

Un tempo in questo negozio c’era un’edicola. La gente si fermava, comprava il giornale, scambiava due chiacchere. Oggi l’unico scambio, impari, è fra tanti che si affidano all’azzardo e chi, Stato compreso, guadagna sulla loro povertà.

Colpisce un manifesto, all’angolo esterno in alto. «Smetto quando voglio». È il titolo di un film.