Toscana

Giornata migrazioni, portare speranza tra gli immigrati

Quest’anno la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato (15 gennaio), che ha per tema «Migrazioni e nuova evangelizzazione» (testo integrale del messaggio del Papa) sarà celebrata a livello nazionale a Perugia, con la messa presieduta dall’arcivescovo mons. Gualtiero Bassetti. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul significato della Giornata.

Quale messaggio viene da una regione come l’Umbria per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato?

«Dall’Umbria viene un messaggio molto importante: Perugia è stata la prima città d’Italia ad avere un’università per stranieri. Gli studenti stranieri sono più di 9 mila e provengono da 120 Paesi diversi. Perugia, a parte la drammatica morte di Meredith Kercher, è sempre stata perciò un luogo di convivenza pacifica. C’è una consuetudine da parte del popolo perugino e umbro all’accoglienza dell’immigrato, dello straniero, del profugo».

Il tema della Giornata del 2012 è «Migrazioni e nuova evangelizzazione». Come coniugare i due termini?

«L’Italia ha un milione di cattolici provenienti da tutto il mondo, ma per la maggior parte gli immigrati sono non cattolici, quindi si pone nei loro confronti la questione della prima evangelizzazione. Inoltre, si registrano ogni anno venticinquemila matrimoni misti tra cattolici e non cattolici, che sono una scommessa grande. Dobbiamo poi aiutare la nostra gente a superare la paura del diverso: le discriminazioni spesso nascono dai pregiudizi. Siamo, infine, come Chiesa italiana nel decennio dell’educazione e la prima forma di educazione, il primo atto di carità è proprio l’annuncio del Vangelo».

L’Umbria è una delle regioni con maggiore presenza di sacerdoti stranieri: quale contributo alla pastorale ordinaria e anche a quella per le comunità etniche?

«In Italia abbiamo 2.300 sacerdoti stranieri: diversi sono in Umbria, anche appartenenti a ordini religiosi. Per potersi integrare concretamente nella vita delle nostre parrocchie e delle nostre comunità gli immigrati devono essere seguiti personalmente non solo da sacerdoti dei loro Paesi, ma anche dai nostri preti. Cerchiamo di aiutarli a vivere la ricchezza delle loro liturgie. Dobbiamo partire da questa convinzione: ogni diversità è ricchezza se si sa coniugare nella maniera giusta, facendo naturalmente convergere il tutto verso la comunione. Infatti, la Chiesa sa portare il Vangelo in ogni cultura, sa cogliere quanto c’è di meglio nelle varie culture proprio per favorire la comunione. Perché la comunione non è mai omologazione, piuttosto fa emergere i doni, i carismi, le diversità che ci sono, ma tutti uniti nell’Eucaristia e nella Parola».

Lei ogni anno celebra una liturgia con i giostrai: come è nata questa iniziativa?

«Nacque quando ero vescovo di Piombino-Massa Marittima e andai a celebrare un’Eucaristia per un gruppo di giostrai a Follonica; vi andai anche l’anno dopo. Quando poi sono giunto ad Arezzo, e ora a Perugia, come vescovo, questo stesso nucleo di giostrai, integrato con altri, è venuto anche lì. Sono 16/17 anni che li incontro: nel periodo che stanno da noi, che è di circa due mesi, li aiuto a inserirsi in parrocchia. Li considero un pezzo di comunità. Quest’anno, ad esempio, c’era un gruppo di ragazzi ai quali ho fatto seguire il catechismo per alcune settimane: il prossimo anno li ammetteremo alla cresima se torneranno qui. Il parroco della zona è attentissimo, appena arrivano li va a trovare, ha organizzato anche una festa in parrocchia con la presenza del vescovo, in modo da invitare la città a non sentirli come un corpo estraneo».

Quali sono le prospettive per il 2012 rispetto ai problemi dei migranti e dei rifugiati?

«La gente, anche per la crisi economica, tende a chiudersi nel proprio guscio e guarda con sospetto chi arriva, quasi venisse a prendere qualcosa che già scarseggia per noi. Bisogna aiutare la nostra gente a liberarsi da ogni forma di egoismo e comprendere che ormai il mondo è un unico villaggio. Se siamo cristiani l’annuncio del Vangelo, implicito o esplicito, è il nostro primario compito di carità verso gli altri. Gesù Cristo, nel mistero dell’incarnazione, ha preso su di sé la nostra pelle e la nostra carne: ciò vuol dire che Gesù è quello straniero, quel migrante, quella famiglia bisognosa. Partendo dalle verità più profonde della nostra fede abbiamo sempre un aggancio per sperimentare la speranza. Se non portiamo noi la speranza, non la porta nessuno. È questa la grande sfida, soprattutto in un momento difficile come il nostro».

Gigliola AlfaroPrato, Epifania come «festa dei popoli»di Gianni Rossi

Un pomeriggio di colori, di lingue e di canti diversi ha segnato festosamente l’Epifania, in piazza Duomo a Prato. Già da alcuni anni, infatti, la solennità liturgica, su iniziativa del Vicario episcopale per gli immigrati mons. Santino Brunetti e delle cappellanie per gli stranieri, è l’occasione per dar vista alla «Festa dei popoli», che vede protagoniste le numerose comunità di cattolici stranieri presenti nel territorio diocesano.

Momento saliente della manifestazione, a cui ha partecipato il Vescovo Gastone Simoni, è stato l’arrivo del corteo dei Magi. Ai bambini, soprattutto quelli stranieri, il presule ha voluto rivolgere il suo pensiero.

Ma quella di piazza Duomo non è stata l’unica iniziativa del genere nella festa dell’Epifania. Alla parrocchia Regina Pacis di Santa Lucia, nella zona nord di Prato, si è tenuto un pranzo, con tanto di arrivo della Befana, a cui hanno partecipato diversi immigrati abitanti nella zona con le loro famiglie. Un segno di condivisione voluto dal parroco don Mauro Rabatti.

Di stranieri, tra pastorale e problemi sociali, ha parlato al mattino, durante la messa solenne in cattedrale, anche il vescovo Simoni. Nell’occasione del ventesimo anniversario della sua ordinazione episcopale, «quel che interessa a me – ha affermato – è favorire come la stella dei Magi l’incontro con Gesù Cristo di coloro che hanno una fede addormentata e di coloro che sono venuti da lontano a vivere e lavorare a Prato». Una città, ha tra l’altro detto, ormai multietnica.

Nell’omelia il presule ha parlato «del significato universalistico del Vangelo». I cattolici pratesi, ha spiegato Simoni, «hanno una grande missione: annunciare Gesù Cristo a tutti gli immigrati», che vanno visti «non soltanto come un problema, ma anche come una possibilità». Una linea di pensiero, questa, che a giudizio del Vescovo dovrebbe ispirare anche i rapporti civili ed economici: «Dobbiamo essere preoccupati giustamente del rispetto delle regole, ma dobbiamo anche guardare agli stranieri come a uomini e donne che vivono, prima o poi, pur nella diversità delle culture, le nostre stesse esperienze e le nostre stesse attese».

La storia: Omar, dal Ciad a Livorno in fuga per un matrimoniodi Giulia Sarti

Omar compirà 21 anni quest’anno. Ma nel suo sguardo non c’è quell’entusiasmo tipico di chi è nel fiore della giovinezza convinto di poter fare tutto quello che vuole per essere felice. Forse perché, nonostante la sua giovane età, ha già visto tanta violenza e odio, vissuto tanta sofferenza e fughe.

Omar ha un figlio di cui non ha notizie da tempo, perché è dovuto fuggire dalla sua casa, dalla sua famiglia e dal suo Paese fino ad arrivare a Livorno, dove per il momento vive in una casa di accoglienza della Caritas diocesana insieme a altri quattro suoi connazionali nella sua stessa condizione. Facciamo qualche passo indietro per capire come ci è arrivato.

Nato in Ciad, Omar viveva con la sua famiglia, studiava e aveva una fidanzata. Tutto apparentemente normale se non fosse che la famiglia di lei, apparteneva a un’etnia rivale a quella di Omar e che vietava di sposare chi non fosse appartenuto alla stessa.

Quando Omar e la sua ragazza hanno scoperto di aspettare un figlio, lei avrebbe voluto tenere nascosto ai fratelli il nome del padre per proteggerlo da sicure violenze. «L’hanno picchiata più volte – racconta il ragazzo – perché parlasse». Dopo un primo momento di minacce nei confronti di Omar, le due famiglie sembravano essere giunte a un accordo: i due ragazzi si sarebbero potuti sposare. «Ho lasciato lo studio, mi sono messo a lavorare e nel frattempo è nato mio figlio». Ma dopo qualche mese, un giorno, i fratelli della moglie di Omar sono arrivati e l’hanno portata via. Dopo non molto tempo, hanno fatto sapere al ragazzo che era morta. Da quel momento ogni giorno la casa di Omar e della sua famiglia era visitata dai parenti di lei e scontri e violenza, che hanno portato addirittura alla morte di uno zio di Omar, si sono allargati a tutta l’etnia.

Quando la situazione si è fatta insostenibile, Omar ha deciso di scappare lasciando sua madre e suo figlio in un villaggio dove i ribelli (le etnie come quelle della sua famiglia, diverse da quella al potere) si erano rifugiati.

«Non ho più loro notizie da quel giorno», dice. Il suo viaggio invece è continuato fino ad arrivare in Libia passando il confine su un camion in mezzo a montoni. Qualche tempo dopo aver trovato lavoro in un’officina di auto, dove lavorava tutto il giorno e dove aveva anche un alloggio, in Libia scoppia la guerra civile e gli africani neri non sono visti di buon occhio. «Una notte un gruppo armato è entrato di forza distruggendo tutto. Ho visto tagliare la gola ad alcuni miei connazionali, ma sono riuscito a scappare».

A quel punto la decisione più o meno forzata: partire per l’Italia. Dopo un viaggio di 28 ore su una barca con più di 150 persone, si è trovato immerso nel caos più totale, senza capire la lingua, senza sapere dove si trovasse di preciso: era arrivato a Lampedusa. Da lì, dopo pochi giorni è stato trasferito a Torino e poi a Livorno. Ed è qui che si trova adesso, prestando servizio alla mensa della Caritas diocesana, e aiutando in tutto quello che c’è da fare.

Un paio di mesi fa è stato scelto per partecipare all’udienza del Papa in occasione dei 40 anni della Caritas Italiana. «È stata un’esperienza bellissima sia perché ho visitato la città che mi ha affascinato, che per la gioia di essere proprio io a vedere il papa. Sono musulmano, ma questo per me non è mai stato un problema qui in Italia, il Dio in fondo è il solito».

E adesso? Omar è in attesa di sapere se la sua richiesta di asilo politico verrà accolta. Se così non fosse una delle possibilità potrebbe essere quella del rimpatrio. E questa è l’unica cosa che non vorrebbe perché per lui potrebbe voler dire essere ucciso, almeno finché al potere ci sarà un’etnia rivale alla sua. Per il resto non sa bene cosa vuole fare del suo futuro. Italia, Europa, Africa…per adesso Omar vive uno stato di attesa che lo demoralizza un po’. Ancora non parla bene l’italiano, non conosce il Paese, è immerso in un iter burocratico che non capisce. Ma in fondo è un ancora un ragazzo, ha ancora un po’ di tempo per decidere.

Permesso di soggiorno un «balzello» da 200 euro