Toscana

I cinque che vivono alla Misericordia, da un mese lontani da casa e famiglia

Per molti le mura domestiche sembrano sempre più delle sbarre di una prigione. Eppure, c’è chi ha rinunciato a casa e famiglia per non tradire la propria missione: aiutare gli altri. Sono i fratelli della Misericordia San Martino – Firenze Ovest: Gianluca Pantano e Simone Natale (dipendenti del Coordinamento delle Misericordie dell’Area fiorentina), Fedora Del Monaco e Lorenzo D’Elia (dipendenti della Federazione regionale delle Misericordie della Toscana), e il volontario Luca Sirbu. Sono giovani tra i 21 e i 29 anni e da più di un mese convivono nei locali della sede in via Pistoiese. Ci rimarranno per tutta la durata della quarantena. All’inizio erano solo i quattro dipendenti, poi si è aggiunto anche Luca: il ragazzo aveva prestato servizio per una settimana nell’albergo di Vaglia in cui sono stati ricoverati i positivi al coronavirus a bordo della Costa Luminosa, perciò non si era sentito sicuro a tornare a casa dai genitori.«Abbiamo preso questa decisione l’8 marzo, poco prima dell’inizio del lockdown per tutti» ha spiegato Gianluca, 27enne studente di Infermieristica e dipendente del Coordinamento delle Misericordie dell’Area fiorentina. Avevamo avuto diversi contatti con le Misericordie del Nord Italia e avevamo capito che la Covid-19 avrebbe raggiunto presto anche Firenze. Così, abbiamo deciso di rimanere nei locali della sede, sia per tutelare le nostre famiglie, sia per spirito di gruppo, nonché per garantire efficienza negli interventi e reperibilità h24». Gli interventi assegnati alla San Martino, infatti, sono delicati, soprattutto perché i suoi membri prestano servizio a bordo dell’ambulanza «Covid», presso la Misericordia in piazza Duomo, con il compito di gestire il vano sanitario del mezzo e trasportare fisicamente le persone contagiate dal coronavirus. «La sede è un palazzo a due piani, non abbiamo problemi di spazio» ha spiegato Gianluca. «In ogni caso, stiamo sempre attenti a mantenere la distanza di sicurezza e a indossare la mascherina quando restiamo nella stessa stanza per più tempo». Come accade in ogni convivenza, ci sono stati momenti buoni e momenti meno buoni, questi ultimi spesso causati dallo stress accumulato durante i turni. «Le prime due settimane sono passate con serenità. La nostra vita, a parte dormire in sede, non era cambiata molto: sempre a lavoro per compiere il nostro dovere. Adesso, però, è iniziata ad affiorare la stanchezza. È un mese che non vediamo le nostre famiglie, la sera torniamo esausti e magari possono esserci screzi per piccole cose. Siamo colleghi e amici, ma qui c’è sempre qualcosa da fare e sei sempre con qualcuno. Non hai momenti soltanto tuoi, in cui puoi staccare la spina». Nulla di grave, comunque. «La nostra è una missione e la voglia non manca» ha assicurato Gianluca. «D’altronde eravamo ben consci che l’emergenza non sarebbe terminata presto».Per Fedora Del Monaco, 27enne studentessa di infermieristica, è accaduto tutto all’improvviso, in un momento particolare della sua vita: «Ho acquistato casa da poco, ma purtroppo non è ancora pronta. Quindi, da un paio di mesi vivevo a casa di mia madre, con lei, il suo compagno e mia sorella. Quando abbiamo deciso di restare a dormire in sede, ed è stata una decisione rapida, sono tornata a casa velocissima e ho fatto la valigia con il poco che riuscivo a portarmi dietro». È stata una scelta dettata dai rischi legati agli interventi e dall’incertezza sulle misure sanitarie di autoprotezione. «Nei primi di marzo i nostri interventi riguardavano sempre più spesso persone con tosse e febbre. Era il momento di massima confusione e le linee guida variavano di continuo: in pochi giorni siamo passati dal non indossare nulla alle mascherine, fino alla tuta».Anche se prima di prendere servizio alla San Martino si conoscevano poco, Fedora ha confermato che i cinque avevano già stretto un legame affettivo e professionale che ha reso più facile la loro personale quarantena. Il resto lo ha fatto l’attaccamento al servizio della Misericordia: «Devo ammettere, però, che sono le piccole cose a mancarmi, quelle che si danno per scontate, come un aperitivo con gli amici o la colazione al bar». E poi, ovviamente, c’è la sua famiglia: se in tempi normali l’amore desidera la vicinanza, in tempi di Covid l’amore richiede separazione: «Mi sono trovata a parlare con mia madre attraverso il vetro della macchina. Una cosa che mi ha fatto venire i brividi. La sto evitando, perché non mi potrei mai perdonare se contagiassi qualcuno a cui tengo. I miei all’inizio erano preoccupatissimi, ho fatto quasi fatica a dirgli che lavoravo a bordo dell’ambulanza “Covid”; poi hanno capito quanto io sia attenta e scrupolosa. Mi mancano. Anzi ci manchiamo».