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IRAQ, RITIRO CONTINGENTE SPAGNOLO FA VACILLARE COALIZIONE INTERNAZIONALE

Nella giornata in cui l’elenco dei caduti in Iraq tra i soldati della coalizione internazionale ha ufficialmente superato quota 700, attestandosi a 708, hanno fatto notizia soprattutto le reazioni all’annuncio di ritirare le truppe di stanza nel Paese arabo fatto ieri dal nuovo e appena insediato esecutivo socialista spagnolo, guidato da José Luis Rodriguez Zapatero. Una delle più significative è giunta dal presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, che però parlava a Roma in una riunione del comitato della lista unica del centro-sinistra per le prossime elezioni europee: “La Spagna con questa decisione è tornata sulla nostra linea…. e la spaccatura in Europa si sta attualmente ricomponendo”. Prodi aveva anche aggiunto: “La posizione spagnola va letta come una forte pressione per accelerare la soluzione di questi problemi in un periodo di tempo breve. È una posizione chiarissima e condivisa”.

Riferita anche da agenzie di stampa internazionali come la britannica Reuters, la dichiarazione di Prodi è stata seguita poco più tardi da un breve comunicato del suo portavoce Marco Vignudelli, secondo il quale “Prodi continua a ritenere non utile il ritiro immediato delle truppe dall’Iraq”. Giungeva poi da Bruxelles una dichiarazione del portavoce della Commissione Europea Reijo Kemppinen secondo il quale quel che Prodi aveva detto costituiva “la posizione del presidente; la Commissione in quanto tale non ha una posizione esplicita sulla presenza militare in Iraq. La posizione dell’Esecutivo è sempre stata quella di sottolineare il ruolo dell’Onu, ma l’Esecutivo in quanto tale non ha mai preso una posizione chiara ed esplicita sulla presenza militare in Iraq”. Kemppinen, rispondendo ai giornalisti aggiungeva anche che la posizione di Zapatero e quella della Commissione “è che le forze militari non sono sufficienti per dare una soluzione al problema. Quello che vogliamo è che l’Onu prenda la guida della transizione politica ed eventualmente anche la responsabilità delle forze militari”.

L’annuncio del ritiro spagnolo – che, secondo il ministro della Difesa di Madrid, José Bono, si compirà entro le prossime otto settimane – non suscitava reazioni dello stesso segno da parte degli altri 33 Paesi (20 dei quali europei) presenti in Iraq con contingenti militari. Si apprendeva nelle stesse ore che il ritiro dei quasi 1.400 uomini del contingente iberico avverrà “nel minor tempo possibile e in massima sicurezza”; il ministro della Difesa spagnolo Bono lo precisava a margine del primo Consiglio dei ministri. Il presidente statunitense George W. Bush contattava intanto Zapatero esprimendo “rammarico” per il “brusco ritiro” e mettendolo in guardia dall’evitare iniziative che possano dare “false speranze ai terroristi o ai nemici della libertà in Iraq”. Nei cinque minuti di conversazione tra i due, l’inquilino della Casa Bianca chiedeva anche al nuovo primo ministro spagnolo di coordinare il ritiro delle truppe di Madrid in modo da “non mettere a rischio le altre forze della coalizione in Iraq”.

In risposta al gesto spagnolo, il capo radicale sciita Moqtada al Sadr – sempre ricercato dalla coalizione – dalla città santa di Najaf dava immediatamente ordine di cessare gli attacchi dei suoi seguaci contro le truppe di Madrid; il capo della resistenza sciita ribadiva inoltre il suo parere favorevole alla presenza di una forza di pace delle Nazioni Unite in Iraq, ma solo “a patto che sia composta da truppe di Paesi islamici o comunque di Stati che non abbiano partecipato alla guerra e all’occupazione dell’Iraq, come, Francia, Germania o Russia”. Non vanno sottovalutati due aspetti tutt’altro che marginali del ritiro spagnolo: Madrid aveva inviato uno dei più importanti contingenti dopo Stati Uniti (130.000), Gran Bretagna (9.000), Italia (2.981); la partenza dei militari iberici dovrà ora essere rimpiazzata da qualcuno, forse dagli stessi Usa, che già la scorsa settimana hanno dovuto ammettere l’imminente invio di 20.000 nuovi soldati in Iraq, fallendo così nel tentativo di alleggerire la loro presenza nel Paese arabo. A meno che Washington non intenda aspettare l’arrivo del contingente di 3.000 uomini promesso dalla Corea del Sud, tra l’altro già presente con 600 militari non combattenti (medici e ingegneri). Bisogna, inoltre, tenere presente che proprio alla fine della settimana scorsa sono cominciate a filtrare voci di un possibile ritiro del Portogallo, nel caso in cui il passaggio delle consegne dagli Usa all’Onu dovesse ancora tardare.

Secondo l’amministrazione Usa, infine, la decisione di Madrid potrebbe avere presto ripercussioni sul governo dell’Honduras, che richiamerebbe in patria i suoi 370 uomini, nonostante il legame di assoluta e incondizionata fedeltà che lega l’attuale governo di Managua a Washington (come dimostrato dal recente caso della presentazione di una risoluzione contro Cuba in seno alla Commissione dell’Onu sui diritti umani). Sono tanti piccoli segni di sfaldamento all’interno della coalizione, che non possono non preoccupare gli Usa, tanto più che l’attesa data del 30 giugno – giorno entro il quale dovrebbe avvenire il fatidico passaggio di consegne dall’amministrazione di Paul Bremer a quella transitoria irachena – è sempre più vicino. Sempre sul fronte politico e diplomatico vanno segnalate altre due novità: la contrastata nomina da parte del presidente Bush di John Negroponte, attualmente rappresentante Usa alle Nazioni Unite, come prossimo ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq (sempre che il Senato dia il suo assenso); l’annuncio del primo ministro britannico Tony Blair che le forze della coalizione “rispetteranno assolutamente” la data del 30 giugno per il trasferimento di poteri dall’amministrazione Usa guidata da Paul Bremer a quella provvisoria irachena. In verità, quest’ultima più che una novità sembra ormai diventata un monotono refrain.

L’ottimismo di Blair, tuttavia, non trova al momento grossi motivi di conforto sul campo. Per descrivere la situazione irachena, basti pensare che i marines Usa di stanza nell’ovest dell’Iraq, in particolare nella zona del ‘triangolo sunnita’, hanno deciso di razionare i viveri nel timore di esaurire le scorte. L’approvvigionamento delle forze sul campo si fa, infatti, sempre più difficile, visto che la resistenza irachena non fa passare giorno senza assaltare le autocolonne che trasportano le scorte alimentari e il carburante. Per il momento, il cibo non manca, ma gli Usa sanno perfettamente di doversi riorganizzare sul campo per trovare il modo di trasportare gli approvvigionamenti in maggior sicurezza. Sempre a proposito del ‘trangolo sunnita’, a Falluja, dove nelle scorse settimane si sono verificati scontri sanguinosi che hanno lasciato sul campo centinaia di iracheni, la coalizione ha annunciato di aver raggiunto un accordo per ridurre la tensione.

In Iraq, intanto, si continua a morire. Ieri è toccato, tra gli altri, a un giornalista della catena televisiva satellitare irachena e al conducente della sua automobile, uccisi dalle forze Usa a Samarra, città a nord di Baghdad, sul fiume Tigri. Nello stesso frangente è rimasto gravemente ferito anche un fotografo.Misna