Toscana

Il ’68 dei cattolici

di Ennio Cicali

Sessantotto, un termine ambiguo e controverso, su quale ancora ci si interroga, usato per designare processi di varia natura, che coniuga politica e cultura, storia e cronaca. Un anno, lungo molti più anni, passato nell’opinione pubblica come la «sbornia» di una turbolenta fase della nostra storia, nata come contestazione a tutti gli autoritarismi, che ben presto si è sviluppata in azioni di massa, trasformando alle radici i comportamenti e i linguaggi sociali.

Perché il ’68 non è solo l’anno delle rivolte studentesche, che, dagli Stati Uniti, dilagano in Europa, in Francia, in Germania, in Italia, altrove; ma è anche quello del terremoto del Belice; dell’offensiva del Tet in Vietnam; degli assassini in America di Martin Luther King e di Bob Kennedy; della Primavera di Praga e dell’invasione della Cecoslovacchia condotta dal Patto di Varsavia; della vittoria dell’Italia di Riva e di Anastasi agli Europei di calcio; dell’enciclica Humanae Vitae di papa Paolo VI; della strage della piazza delle Tre culture e dei pugni chiusi guantati di nero dei velocisti di colore Usa alle Olimpiadi del Messico; dell’elezione di Richard Nixon alla presidenza degli Stati Uniti; dei braccianti uccisi ad Avola.

In Italia il Sessantotto e la contestazione che da esso ha origine ha molte «culle». Un ruolo importante è rivestito dalle Università, tra le quali Pisa, Siena e Firenze. A Pisa la contestazione nasce nei suoi antichi e prestigiosi atenei: l’Università e la Scuola normale superiore. I fermenti sono cominciati qualche anno prima per poi esplodere nel ’67 con le «Tesi della Sapienza», che rivendicano la costituzione di un «sindacato studentesco» che identifica lo studente come forza-lavoro. In quel periodo nasce a Massa «Potere operaio» – senza l’articolo, da non confondere con il più noto «Il potere operaio» – che si collega con l’intervento politico svolto nelle fabbriche di Massa, Pisa, Piombino, Livorno, Firenze, per poi diffondersi in altri centri.

Il ’68, inteso come anno, comincia alla facoltà di lettere dell’Università di Pisa dove gli studenti chiedono l’abolizione della lezione cattedratica e la sua sostituzione con seminari di studio e di ricerca. Nel dibattito intervengono studenti destinati a rivestire, tra gli altri, un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale italiana: Fabio Mussi, Massimo D’Alema, Adriano Sofri, che sarà tra i fondatori di «Lotta continua» del quale diverrà capo indiscusso. È l’anno degli scontri di piazza tra manifestanti e polizia, con la magistratura che interviene per l’occupazione della facoltà di lettere a Pisa: è il primo caso in Italia.

Le Università ribollono, con scioperi a Pisa (alla Sapienza, ingegneria e medicina) e a Firenze. Si muovono anche gli studenti delle scuole superiori. Un periodo magistralmente ricostruito da Giovanni Nardi, allora capo della redazione pisana della Nazione, nel libro «L’immaginazione e il potere – cronache del ’68 a Pisa» (Nistri – Lischi editore). È un quadro che si allarga a grandi e piccole città. Non sono solo le scuole in subbuglio, le agitazioni si estendono alle più importanti fabbriche della Toscana. Sono le prime avvisaglie di quello che sarà definito l’«autunno caldo» che vedrà in piazza milioni di lavoratori in lotta per i rinnovi contrattuali.

Il Sessantotto appare oggi sfumato nella lontananza di un altro secolo. Quella somma confusa di alterazioni diede a buona parte del mondo occidentale una fisionomia nuova, e dalla quale non ci si sarebbe più discostati. Le agitazioni del ’68 hanno avuto la capacità di far emergere le storture della società di allora. L’azione provocatoria non può però diventare comportamento abituale e quotidiano, rileva il filosofo e sociologo tedesco Jurgen Habermas: «Io voglio dire solo una cosa: le regole formali, contro le quali voi scendete in campo con tanto vigore, dovrebbero essere realizzate interamente, non già messe fuori gioco».

La fine del 1968 è drammatica: il 31 dicembre a Marina di Pietrasanta è contestato il Capodanno alla Bussola, famoso locale della Versilia. Soriano Ceccanti, ferito da un colpo di pistola, resta paralizzato. Sono le prime avvisaglie: poi verranno le stragi e gli attentati. Quella che doveva essere l’«immaginazione al potere» per molti si trasformerà in tragedia.

Parla l’autore de «Il lungo autunno» e «Cantavamo Dio è morto» «Tanti gli errori, ma almeno c’era la voglia di cambiare»

di Claudio Turrini

Dieci anni fa, quando andavo in giro a presentare il Lungo autunno mi sentivo fare spesso questa domanda: “ma insomma, il Sessantotto è tutto sbagliato, tutto da buttare?”. Perché io calcavo il controcanto a Mario Capanna. C’era anche della gente un po’ più vecchia di me, che aveva vissuto quegli anni e che fors’anche perché ricordava i suoi 20 anni, era un po’ più indulgente. Alla fine, da qualche parte, sbottai: “guardi che io non sono contro gli ideali buoni che c’erano nel Sessantotto. Anzi le dico di più: quando sarà il momento io difenderò quegli ideali buoni”. E il momento è arrivato». Roberto Beretta, giornalista di «Avvenire», autore di bestseller sui cattolici italiani e la loro storia recente, spiega così l’origine di questo suo nuovo libro Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici, appena uscito per l’editore Piemme. Dieci anni dopo Il lungo autunno (Rizzoli), torna ad indagare gli anni della contestazione cattolica. «Ho diviso questo nuovo libro in due parti – ci spiega –: una parte destruens, quella di forte critica ai miti del Sessantotto: “laico, democratico, formidabile, spontaneo, non violento, figlio del Concilio, inevitabile”. Uso degli episodi per dire: “attenzione, non è stato esattamente come ce l’hanno cantato fino ad adesso”. E questo è in sostanza anche il lavoro che avevo fatto nel Lungo autunno di dieci anni fa. La seconda parte vorrebbe essere un po’ l’aggiunta: la pars costruens. Cioè: ma dobbiamo proprio buttar via tutto di questo Sessantotto, o c’è qualcosa che in realtà, forse fatta male, con metodi sbagliati o gestita male che però rimane un qualcosa che noi potremmo recuperare?».

Quindi c’è un cambiamento di prospettiva…

«Io rimango sempre molto duro nel giudizio. I fatti rimangono quelli, a parte qualche aggiornamento. Però ho cambiato l’angolatura da cui guardo i fatti. Dieci anni fa tutti esaltavano il Sessantotto come un anno formidabile, un’esperienza irripetibile, una cosa che non aveva difetti, perfezione della democrazia, della partecipazione, dell’uguaglianza, dei diritti… Mi sembrava che la cosa principale fosse guardare l’altra faccia della medaglia e dire: “un momento non è proprio stato tutto così, non fu proprio un anno formidabile”.

Oggi invece…

«Mi sembra che il contesto culturale sia cambiato, che la tendenza sia quella di condannare il Sessantotto addossandogli tutte le colpe. La scuola va male? Colpa del Sessantotto. La famiglia va in crisi? Colpa del Sessantotto. La società non ha più valori? Colpa del Sessantotto. La politica è morta? Colpa del Sessantotto. La Chiesa è nella situazione in cui siamo? Colpa del Sessantotto. Questa visione mi sembra sbagliata e pericolosa. Perché è una visione molto funzionale al potente di turno. Anche nella Chiesa. È come se si dicesse: avete visto quegli illusi, quegli utopisti, che volevano cambiare il mondo? Guardate cosa hanno combinato. Meglio non cambiare, meglio stare allo status quo, non provarci neanche perché quello che potrebbe venire è soltanto un disastro. Questo porta poi ai rigurgiti di clericalismo che vedo nella Chiesa, oppure alla stanchezza, al riflusso nel privato, all’idea che il mondo non cambia, quindi tanto vale che noi ci occupiamo delle nostre piccole faccende… Anzi tentare di cambiarlo peggior ala situazione».

Qualcosa di buono dunque c’era anche in quella contestazione…

«Proprio da cattolici, sappiamo bene, leggendo con una teologia della storia gli avvenimenti, che non esiste il male totale e non esiste il bene totale. Nella vita le cose si mescolano e bisogna applicare il discernimento, che noi cattolici predichiamo molto spesso ma che dovremmo anche sapere applicare. Dobbiamo esercitare un giudizio storico ma anche teologico su quell’epoca per discernere ciò che c’è stato di sbagliato – ed è stato tanto – ma anche quello che c’è stato di buono. E questo soprattutto per i giovani».

Come li vede i giovani, oggi?

«Vedo le nuove generazioni che sembrano rassegnate, ripiegate su se stesse. Forse anche questo è un estremo frutto sbagliato del Sessantotto. Perché quell’incendio fu talmente veemente, talmento totalitario, talmente vasto, che ha bruciato tutti i germogli di speranza anche per le generazioni successive. Non soltanto parecchi dei protagonisti del Sessantotto adesso si sono accomodati su lidi molto meno rivoluzionari e più comodi, vedi quelli che sono diventati i potenti di turno nei giornali, nella politica, nell’economia ecc. Ma hanno anche fatto terra bruciata per i giovani che vengono dopo».

Dieci anni fa definiva il Sessantotto come «figlio illegittimo del Vaticano II». Questa volta scrive invece che è «prematuro e di padre incerto ma molto cattolico…». C’è davvero questo legame con il Concilio?

«In Italia sì. Anzi, devo dire che rispetto al libro precedente si è un po’ approfondita la mia convinzione. Oggi sostengo che è un figlio legittimo che poi in molti casi se ne va per la sua strada…».

Cerchiamo di capire meglio. Dove stanno i legami?

«Ci sono diverse tesi sui rapporti tra Concilio e Sessantotto cattolico. Quella più di destra sostiene che il Concilio ha fatto nascere direttamente il Sessantotto, rimuovendo certe solidità dogmatiche o liturgiche tradizionali della Chiesa. In pratica avrebbe scoperto una pentola dentro la quale stavano un sacco di venti nocivi che hanno creato la contestazione. La tesi più di sinistra, sostiene invece che il Sessantotto non è figlio del Concilio quanto piuttosto di una sua mancata applicazione».

E la sua qual è?

«La mia tesi si colloca nel mezzo. Non si può negare che ci sia stata una raccolta di linfe nel mondo cattolico, soprattutto quello intellettualmente e culturalmente più preparato che il Concilio aveva facilitato. C’era un’attesa, uno studio di testi, una circolazione di libri, di idee e di maestri, che il Concilio aveva messo in giro nel corpo della Chiesa italiana e che all’inizio soprattutto sembravano poter trovare l’applicazione migliore attraverso i moti del Sessantotto cattolico. Quindi è vero, che all’inizio è nato “conciliare”. Ma poi ha preso una sua strada. Più avanti ha scelto una strada che non era più sempre conciliare, a volte non era più neanche ecclesiale, e neppure più cristiana e religiosa».

Quanto hanno inciso personaggi che a Firenze hanno avuto un grande ruolo, come La Pira, Don Milani, padre Turoldo, padre Balducci?

«La grande stagione della Chiesa fiorentina c’entra poco con la contestazione, anche cattolica. A volte ci viene tirata per i capelli per delle analogie che sono fuorvianti. È fuor di dubbio, ad esempio, che La Pira ha sempre mantenuto le sue iniziative – a volte anche dirompenti e persino rivoluzionarie – nella più stretta ortodossia e obbedienza alla gerarchia. Si può dire che La Pira che ha fatto l’Isolotto, non lo ha più seguito dieci anni dopo quando è diventato la bandiera del dissenso cattolico».

I contestatori citavano però gli scritti di don Milani…

«È vero che la sua Lettera ad una professoressa è diventata una sorta di libretto rosso dei cattolici italiani, che veniva agitato nelle manifestazioni e nelle assemblee, come il manifesto del nuovo modello di educazione che il Sessantotto avrebbe dovuto portare: un’educazione non più nozionistica, paternalistica, autoritaria, ecc. Però è pur vero che questa è una lettura molto parziale del testo. È quasi una strumentalizzazione».

Una lettura parziale che lo stesso don Milani non avrebbe autorizzato…

«Sì è vero. Sappiamo benissimo che l’influenza del Concilio Vaticano II su don Milani è stata per sua stessa ammissione quasi nulla. Sappiamo anche che una delle cose che don Milani aborriva era proprio la rivoluzione dei figli di papà, che Pasolini avrebbe poi stigmatizzato. E il Sessantotto è stato in larga parte una rivoluzione dei figli di papà».

I «Pierini» di «Lettera ad una professoressa»…

«Esatto. Se don Milani avesse dovuto fare scuola ai sessantottini questi l’avrebbero subito contestato come il più duro dei loro professori. Don Milani non era certo un maestro dal sei politico».

Quanto ha inciso nel «caso Isolotto» una cattiva gestione di quella esperienza?

«Il primo capitolo della seconda parte del mio libro è proprio dedicato a Florit e al caso Isolotto e si intitola: L’occasione mancata».

In che senso, «occasione mancata»?

«Molto è dipeso dalla durezza dei caratteri dei protagonisti, come già era successo per don Milani. Nella posizione dell’Isolotto c’erano – è evidente – delle esagerazioni. Però sicuramente la prima risposta di Florit alla lettera di adesione all’occupazione della cattedrale di Parma, quella da cui scoppiò il caso, è un testo eccessivo nei toni, troppo duro, ultimativo. Emerge addirittura che il cardinal Siri fu più morbido e diplomatico di Florit».

Cioè riuscì a mantenere sempre aperto il dialogo?

«È lo stesso Siri che lo dice: a Genova io non ho mai avuto problemi con i contestatori perché li ascoltavo. Ci sono lettere di Siri alle comunità di base nelle quali scrive: “cari giovani, io capisco le vostre contestazioni, le vostre aspirazioni e alcune anche le condivido….”. Un tono completamente diverso da quello usato da Florit. Così che può dire: “con questo stile ho smorzato tutte le contestazioni…”. Non è vero, non le ha smorzate proprio tutte, però non ha avuto un caso Isolotto».

Per la contestazione ecclesiale del Sessantotto, quanto ha significato il caso Isolotto?

«È diventato una bandiera, anche in un modo quasi incomprensibile. Nel capitolo Il Sessantotto fu così formidabile? cito alcuni casi in cui l’evento in sé fu, non dico normale, ma poco sopra le righe, come lo stesso controquaresimale di Trento, dove uno si alza durante l’omelia per dire “non è vero non è vero niente”; e da lì è nato una caso enorme. Lo stesso succede per l’Isolotto, anche se era già un po’ più forte e più grave. Però non credo che giustificasse l’enorme eco che ebbe all’epoca. Nell’ultimo trimestre del ’68 ci sono 460 articoli sulla stampa nazionale. E nascono legami tra l’Isolotto e i focolai della rivolta cattolica e non cattolica. L’Isolotto va alla Cattolica a fare la testimonianza e la Cattolica va all’Isolotto con delle delegazioni quando ci sono delle manifestazioni… o a Trento, o a Genova. L’Isolotto diventa immediatamente il massimo esempio per la contestazione cattolica del ’68. Ancora oggi forse molti non sanno neanche dove sia, però se devono citare una comunità di base, nella maggior parte citano l’Isolotto».

Dopo la stagione delle contestazioni arrivò quella del terrorismo. Anche qui ci sono legami con il mondo cattolico?

«La questione è più complessa e anche per me è difficile da derimere. Ci sono due dati contrastanti: uno è che effettivamente nelle Br o in altre formazioni terroriste troviamo molti cattolici, da Mara Cagol in poi. La moglie di Renato Curcio era una fervente cattolica, una scout, membro dei gruppi liturgici della sua parrocchia, che si era sposata in chiesa… Però d’altra parte quasi tutti i protagonisti di quella stagione negano che quelle siano state le origini. C’è una frattura, non so se dovuta ad una reticenza dei testimoni, perché nessuno vuol dire che è diventato violento seguendo il messaggio evangelico, o se è un dato di fatto reale. Questa è una pista che dobbiamo ancora esplorare».

Settembre ’68: scoppia il caso Isolotto

di Pietro Giovannoni

Il 14 settembre 1968 un gruppo di circa quaranta giovani occupava la cattedrale di Parma chiedendo al vescovo di prendere diverse iniziative concrete che andavano dalla riforma del seminario al rifiuto di costruire una nuova chiesa con finanziamenti della locale Cassa di risparmio. Iniziata alle 15 l’occupazione terminava con lo «sgombero» da parte delle forze dell’ordine verso le 20. Il giorno dopo a Firenze la Comunità dell’Isolotto decise di stendere una lettera di solidarietà con gli occupanti di Parma. La lettera, distribuita la domenica successiva, sarà firmata da 150 parrocchiani comprese quelle del parroco e del cappellano, don Enzo Mazzi e don Paolo Caciolli e del parroco della Casella don Sergio Gomiti. Al centro della lettera la rivendicazione di una necessaria «opzione per i poveri»: «Viviamo in una Chiesa che non ha a fondamento i poveri, gli oppressi, i rifiutati, gli affamati e assetati di giustizia. La gerarchia e la parte ufficialmente più responsabile della Chiesa non fanno parte del mondo dei poveri, dei rifiutati, degli oppressi…». E di seguito l’obiezione alla condanna del gesto da parte di Paolo VI ed una critica all’operato del vescovo di Parma.

Il 30 settembre l’Arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit scriveva a don Mazzi contestandogli le sue prese di posizione e prima fra tutte la critica all’intreccio tra Chiesa e potere. Secondo il cardinale don Mazzi, in quanto parroco e per tanto beneficiario di una casa e di uno stipendio, sarebbe stato parte di quel tanto vituperato «sistema», di quell’intreccio tra Chiesa e classi dominanti di cui si chiedeva la fine. Il Cardinale non lasciava alcun spazio al dialogo o nemmeno alla più semplice chiarificazione: intimava a don Mazzi di ritrattare pubblicamente «un atteggiamento così offensivo verso l’autorità della Chiesa» o a rassegnare le dimissioni dall’ufficio di parroco. Il giorno dopo una Nota vaticana stigmatizzava l’atteggiamento di don Mazzi come «aperta ribellione verso il Capo supremo della Chiesa». Nel pomeriggio la Comunità dell’Isolotto è già riunita in una assemblea spontanea e nella notte sarà redatto il numero 1 del «Notiziario», il ciclostilato che voleva rispondere alla disinformazione ed alle strumentalizzazioni dei giornali. All’assemblea partecipano migliaia di persone. La difesa dell’operato di don Mazzi fu quasi unanime e si chiedeva una visita del cardinale all’Isolotto. Nè questo, né la lettera di 108 sacerdoti della diocesi, indussero il cardinale ad un atteggiamento più accomodante. Con la Notificazione del 14 novembre il Cardinale reiterava la sua richiesta: o ritrattazione pubblica o dimissioni. Il 29 novembre la situazione si faceva più torbida con il divieto da parte della Curia dell’adozione del catechismo dell’Isolotto «Incontro a Gesù». A niente valse il drammatico colloquio che il Cardinale ebbe con alcuni laici e poi con don Mazzi il 2 dicembre. Il 4 giungeva il decreto di rimozione dalla parrocchia. Impreviste le reazioni: le scuole elementari e medie si fermano per uno sciopero che si trasforma in un corteo cittadino che giunge fino alle finestre dell’arcivescovado. Di nuovo l’8 dicembre, mentre non si celebra alcuna messa, un corteo attraversa le strade del centro per giungere in Piazza Duomo dove si raccolgono le firme per le dimissioni dell’arcivescovo. Il 20 dicembre Paolo VI scriveva direttamente a don Mazzi invitandolo a volersi riconciliare con il proprio vescovo seguendone le disposizioni. Di fronte a tale intervento una delegazione dell’Isolotto guidata da don Mazzi si recò in Vaticano dove fu ricevuta da mons. Giovanni Benelli. La mediazione di Roma era del tutto impossibile: ricevere don Mazzi avrebbe significato per il papa sconfessare del tutto l’operato di Florit. I giorni del Natale 1969 trascorsero nel clima più cupo: il 25 non venne celebrata alcuna messa, mentre per il 31 dicembre fu fissata dalla curia la consegna della chiesa e dei locali. La messa venne celebrata nei primi giorni del 1969 da mons. Alba con una chiesa semivuota. La situazione insostenibile ebbe un epilogo ancora più drammatico nell’aula del Tribunale. Don Mazzi e altri membri della comunità furono infatti accusati di «promozione di manifestazioni non autorizzate» (il corteo del 5 dicembre 1968) e di «vilipendio alla religione dello Stato». Da allora la chiesa dell’Isolotto ebbe due messe: una dentro ed una in piazza. A sancire una rottura definitiva fu la celebrazione della messa da parte dell’arcivescovo Florit nella chiesa dell’Isolotto nell’agosto del 1969: dopo aver declinato per mesi l’invito a visitare la parrocchia, l’arcivescovo vi celebrava messa con una nutrita scorta di poliziotti.