Toscana

Il pane è sempre quello di una volta?

di Simone Pitossi

Il pane che compriamo tutti i giorni dovrebbe essere realizzato solo con quattro ingredienti: acqua, sale, lievito, farina. Ma è davvero così? Facendo un giro in «rete» troviamo additivi, miglioratori, emulsionanti. I coadiuvanti della lavorazione – come vengono chiamati di solito i «miglioratori» – derivano da sostanze come la soia, il frumento e il pancreas di maiale. E sono usati per favorire un impasto soffice, aumentare la durata di magazzino, rafforzare il sapore e permettere ai produttori di aggiungere più acqua oltre ad usare farine di qualità relativamente inferiore. Questi prodotti che dovrebbero «migliorare» la qualità del pane, non hanno neppure l’obbligo di essere citati in etichetta perché tali elementi in teoria – ma ci sono alcuni studiosi che non sono affatto d’accordo – vengono distrutti durante il processo di cottura. Il che naturalmente non vuol dire che non siano nocivi: semplicemente la cottura ne cancella le tracce. Prima che le industrie chimiche cominciassero a produrre questi coadiuvanti enzimatici, il pane e tutti gli altri lievitati sono sempre stati fatti in maniera tradizionale e naturale. Oggi molti panettieri li usano per questioni commerciali, perché permettono di ottenere crosta e mollica sempre uguali e della stessa consistenza e garantiscono la tenuta degli impasti ad eventuali e impreviste variazioni di umidità e temperatura (che altrimenti per il panettiere potrebbero significare la perdita dell’impasto con conseguente danno economico). Poi ci sono gli emulsionanti, che vengono usati per garantire la stabilità dell’impasto, migliorano la «struttura» della mollica, mantengono la morbidezza e rallentano l’alterazione del prodotto.

Ma anche in Toscana dobbiamo temere di comprare il pane «biotech»? E soprattutto, la chimica quanto è diffusa nella panificazione? A rispondere a queste domande sono le associazioni regionali Confartigianato, Cna e Confcommercio che si occupano anche del settore alimentazione. «Il pane toscano – spiegano – non ha bisogno di miglioratori. Ci vogliono lievito madre, farina di alta qualità e la voglia di proseguire la grande tradizione di un mestiere nobile e antico». «Siamo d’accordo – spiegano le associazioni dei panificatori – sul fatto che l’uso di additivi per aumentare la lievitazione è un fenomeno che esiste, è consentito per legge ma quando cade negli eccessi andrebbe isolato. Ma non si può né generalizzare né alzare i toni. Si rischia solo di creare un allarmismo ingiustificato». «I miglioratori – continuano – sono di molteplice composizione, ma essenzialmente sono raggruppabili in due tipi: quelli a base di enzimi e glutine, elementi già presenti in natura nella farina di grano tenero, e quelli con additivi chimici, da dichiarare tra gli ingredienti, che contengono emulsionanti, cioè sostanze che favoriscono l’inglobamento di aria e acqua in quantità maggiore. In pratica, aiutano la lievitazione e aumentano il tempo di conservazione del prodotto finito. Vengono usati dai panificatori poco attenti alla qualità e nei processi industriali della panificazione, per tagliare tempo e costi di produzione; sono spesso presenti nei pani precotti e surgelati che si trovano nei supermercati, nei panettoni industriali, nel pancarré, ed in molti pani industriali a lunga conservazione». Poi entrano nella questione «geografica»: «Al Nord se ne fa un uso più frequente, perché i miglioratori servono di più nei prodotti con aggiunta di grassi, come panini e baguette, o a base di farine forti come la ciabatta e le rosette, che nelle regioni settentrionali vanno per la maggiore. In Toscana, invece, dove il nostro pane richiede farine più deboli, il ricorso alla chimica è molto limitato».

«Ai nostri associati – confermano le associazioni di Confcommercio, Confartigianato e Cna – diciamo sempre di imparare bene il mestiere adottando le tecniche artigianali. È più utile conoscere la farina e le regole di lievitazione del prodotto che ricorrere alla chimica. Chi usa farina di qualità non ha bisogno di supplire alle carenze con gli artifici. Chi produce il pane toscano come tradizione comanda adopera lieviti naturali certo, il processo è più lungo, costoso e occorre impegnarsi di più: l’impasto con il lievito madre va lavorato due volte, la sera prima e poi il giorno in cui si fa il pane. Ma il sapore che si ottiene non ha confronti». Proprio in questi giorni Regione Toscana e Ministero stanno prendendo una posizione a favore della richiesta formulata dal Consorzio di Promozione e Tutela per l’ottenimento della Denominazione D’Origine Protetta (Dop).

E c’è anche quello che arriva dalla RomaniaAnche il pane, prodotto – simbolo dell’Italia, è colpito dalla concorrenza internazionale, spesso di italiano ha poco o niente. Effetti della globalizzazione: il 25 per cento del pane confezionato che troviamo sulle nostre tavole viene dall’estero, dalla Transilvania, dalla Romania. Le città di Bucarest, di Timisoara, di Costanza, di Cluj – Napoca, ma anche della Russia, Bulgaria, dell’Ungheria, della Moldavia ci mandano un pane che costa la metà del nostro e dura di più, dice anche due anni. A sollevare il caso è stato un articolo di Paolo Berizzi sul quotidiano «La Repubblica». In sintesi, ci presenta un’altra «triste» faccia dei rapporti sempre più difficili dei consumatori con i prodotti alimentari più comuni: «un quarto del pane confezionato venduto nei nostri supermarket arriva di là. Preimpastato e surgelato dura due anni e basta una rapida cottura. Poco si sa sugli aspetti igienici e non c’è obbligo di mostrare la provenienza sull’etichetta».Solo in Romania si producono ogni anno 4 milioni di chili di pane surgelato a lunghissima conservazione (24 mesi). Il fabbisogno nazionale è basso (in confronto all’Italia che è al quarto posto in Europa dietro a Germania, Danimarca e Austria), e quindi più della metà è esportato. L’Italia è uno dei paesi importatori: si stima che oltre il 25 per cento del pane confezionato arrivi dalla Romania e altri paesi dell’Est. Le importazioni dalla Romania di prodotti a base di cereali sono più che raddoppiate nell’ultimo anno: 1,3 milioni di chili (più 136 per cento). Un balzo in avanti, rispetto ai 6.733 chili di dieci anni fa. La filiera del filoncino rumeno si basa su un abbattimento dei costi di produzione e manodopera che l’Italia non può e non potrà permettersi, si parla del 60%.«Sono gli effetti della mancanza di trasparenza sul pane in vendita – dice Sergio Marini, presidente Coldiretti – che impediscono al consumatore di conoscere il paese dove sono stati coltivati i cereali dai quali è ottenuto perché non è obbligatorio indicare l’origine in etichetta. All’inizio si delocalizza la provenienza delle materie prime. Subito dopo l’impianto di trasformazione e il laboratorio artigianale». Il pane da noi costa circa 3,5 o 4 euro il chilo, il pane che viene dall’Europa dell’est almeno la metà, due euro. All’origine di questa forte competitività, spiega il presidente nazionale della Federazione panificatori, Francesco La Sorsa, c’è una diversa legislazione. «Di certo in Romania non sono soggetti alle regole e alle normative cui siamo soggetti noi. Parlo di sicurezza sul lavoro, di tracciabilità, di certificazioni e di controlli di qualità. Questo consente ai produttori di questi paesi- e non c’è solo la Romania – di abbattere i costi di produzione e di essere molto aggressivi sul mercato». Un’aggressività che di certo paga: il giro d’affari è enorme, secondo le stime del quotidiano, raggiunge la cifra di 500 milioni di euro l’anno. E continua a crescere.

Un crescendo che preoccupa i panificatori italiani, come rileva il presidente La Sorsa: «È un grosso problema che stiamo cercando di arginare, ma non è e non sarà facile». Una mano potrebbe arrivare dall’approvazione del regolamento attuativo sul pane fresco. Ma a dispetto di tante promesse, ancora giace fermo sulle scrivanie dei tanti ministeri interessati in attesa di firma, come accade a molte leggi che interessano i consumatori.

La Toscana sembra esente, al momento, dall’«invasione» del pane dall’est. Purtroppo, la crisi che colpisce sempre più la spesa delle famiglie potrebbe costituire un motivo in più per aprire una breccia che poi sarà difficile richiudere. È altrettanto importante che siano attivate tutte le norme per la tutela del consumatore finale che troppo spesso non è in grado e non è preparato a evitare illeciti.

Ennio Cicali