Toscana

La «Costa Concordia» come il «Moby Prince»?

di Giovanni Spinoso

Tra  21 anni chi si ricorderà questo nome? Francesco Schettino, il comandante della nave crociera «Costa Concordia» che decise di fare quello sciagurato «inchino» davanti all’isola del Giglio, venerdì 13 gennaio scorso, alle ore 21,44, provocando il drammatico naufragio di oltre 4 mila persone e la morte di almeno 15, senza contare ancora i dispersi. Ho l’impressione che questo nome moltissimi se lo saranno già scordato. E non mi meraviglierei. Infatti, quanti oggi si ricordano il nome del comandante della petroliera «Agip Abruzzo», che la sera del 10 aprile 1991 si trovava all’ancora nella rada del porto di Livorno, quando venne speronata alle ore 22,27 dal traghetto «Moby Prince» della Navarma, da appena 23 minuti, salpato con destinazione Olbia, dalla Stazione Marittima di Livorno? Si chiamava Renato Superina.

E il nome del comandante della Capitaneria del porto di Livorno di allora chi se lo rammenta oggi? Si chiama Sergio Albanese. E chi comandava il traghetto «Moby Prince», finito in rotta di collisione con la petroliera? Ugo Chessa. Chi ricorda Alessio Bertrand? È il mozzo della «Moby Prince», l’unico sopravvissuto di quella tragedia nella quale trovarono la morte nel modo più tremendo 140 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio. La più grave tragedia della marineria italiana, in tempo di pace.

Perché ricordare questi nomi? Il comandante della petroliera «Agip Abruzzo» per la sua atroce bugia: per radio alla capitaneria di porto di Livorno comunicò che gli era venuta addosso una «bettolina», invece di dichiarare che gli era entrato in collisione, rimanendo incastrato con la punta della prua, in un primo tempo, un traghetto di linea, tutto illuminato, che immediatamente dopo aveva preso fuoco. Come si può confondere un traghetto di linea con una «bettolina. Sarebbe come confrontare un TIR, con una auto «cinquecento». E pensare che un membro dell’equipaggio della petroliera interrogato dal magistrato, dichiarò di aver avvisato il comandante che quel traghetto stava venendo loro addosso, quando era a circa 200 metri di distanza.

Il comandante Renato Superina è deceduto per una grave malattia il 28 aprile dell’anno scorso. Dopo quella nottata della collisione, non ha mai più rilasciato un’intervista, è stato una tomba. È vissuto 20 anni con un macigno nello stomaco. Troppo pesante il pensiero delle conseguenze di quel suo depistaggio. E nella tomba sono finite, tranne il mozzo del traghetto «Moby Prince», 140 persone, 65 marittimi e 75 passeggeri, per lo più morti asfissiati per i micidiali fumi sprigionatisi all’interno del traghetto. In particolare, nel salone centrale dove quasi tutti si erano radunati – come da ordini del comandante Ugo Chessa – in attesa dei soccorsi mai arrivati, nonostante che il traghetto fosse a nemmeno 3 miglia dal porto di Livorno.

Al processo a Livorno, chiamato a testimoniare nel 1995, Renato Superina si avvalse della facoltà di non rispondere, essendo stato archiviata anche la sua posizione nel procedimento penale in cui risultava dapprima indagato, insieme all’ammiraglio Sergio Albanese e all’armatore del «Moby Prince» Achille Onorato.

A risentire le comunicazioni di quella notte del 10 aprile 1991 tra il comandante Superina e la capitaneria di Livorno vengono i brividi. L’intento del comandante sembra solo quello di far convogliare i soccorsi ed i mezzi antincendio sulla propria nave.  In capitaneria a Livorno, quella notte di 21 anni fa, alla sala radio non c’era un altro ufficiale con il carattere e l’esperienza di Gregorio De Falco, divenuto famoso per la drammatica telefonata con il comandante della «Costa Concordia», Francesco Schettino, venerdì 13 gennaio scorso . La sera del 10 aprile 1991 c’era un giovane di leva, a dir poco distratto, non sentì il pur disturbato, quanto drammatico SOS, lanciato (alle ore 22,25 e 27 secondi) immediatamente dopo la collisione dal marconista della «Moby Prince», Giovanni Battista Campus: «May day, may day, “Moby Prince”, siamo in collisione … May day, prendiamo fuoco…».

La tragedia assunse risvolti terrificanti: a terra, dalla Capitaneria e dall’Avvisatore Marittimo, nessuno capì che la «Moby Prince» era la nave entrata in collisione. L’ipotesi balenò per un istante ad un addetto di Livorno Radio PT, che fece una chiamata verso la «Moby». Non ottenne risposta. Motivo di più per cominciare a preoccuparsi seriamente e comunque cercare di capire il perché di quel silenzio. Invece niente.

La sagoma del traghetto incendiato, che stava andando alla deriva, girando su se stesso, fu intravista, ma non identificata, soltanto un’ora e 25 minuti dopo, alle 23,40 da un rimorchiatore della ditta «Tito Neri», Finalmente arrivò anche la motovedetta della Capitaneria, la CP 232, che dopo aver perlustrato con i fari per due volte attorno al traghetto, inquadrò un uomo appeso alla ringhiera del parapetto a poppa, che gridava aiuto. Era il mozzo Alessio Bertrand. Stentarono a convincerlo a buttarsi in acqua. Lui temeva di non farcela. Poi si convinse e venne recuperato dall’ormeggiatore Mauro Galli. Gli chiesero quanti passeggeri ci fossero a bordo. Il mozzo disse: «una cinquantina», poi accennò all’ipotesi che potessero esseri morti bruciati.

L’ormeggiatore della «Tito Neri II» sarebbe stato anche disposto a salire, lanciando un cavo, sulla «Moby» per capire se c’erano altre persone vive. Chiese l’autorizzazione. Gli dissero di no. Ad altri spettava il compito di salire a bordo. Altri chi? Nessuno salirà sulla «Moby» fino alle 2 di notte, per agganciarla e trainarla fino alla Darsena Petroli del porto. Chi ci riuscì, Gianni Veneruso, il marinaio del rimorchiatore «Tito Neri VII» non si ustionò affatto, segno che molto prima ben altri soccorsi potevano essere attivati. I primi elicotteri che sorvolarono il traghetto, mentre venire rimorchiato, verso le 7 del mattino filmarono 9 corpi riversi sui ponti esterni a poppa della nave. Alcune fiammelle lambivano ancora i loro vestiti. Persone che forse erano ancora vive, quando il mozzo fu salvato, 7 ore prima. Soltanto due giorni dopo la collisione, i primi vigili del fuoco riusciranno ad entrare nei saloni interni del traghetto, recuperando solo salme.

La mattina dell’11 aprile il primo fugace contatto del superstite con la stampa. Intervistato da un giornalista della RAI, Alessio Bertrand disse che al momento della collisione lui era già smontato di servizio, dopo aver portato in plancia alle 22,15 dei panini per gli ufficiali e il comandante. Era sceso in una saletta riservata al personale non di turno, dove c’erano una dozzina di altri membri dell’equipaggio. Ed aggiunse: «In quella saletta eravamo tutti a guardare alla tv la partita Barcellona-Juventus». Erano fuori servizio, avevano tutto il diritto di seguire la partita. Ma quella frase è stata immediatamente manipolata da tutti i mezzi di comunicazione, compresa la stessa RAI. «Passò» la versione distorta che sulla «Moby» tutto l’equipaggio era a guardare la finale della coppa dei campioni ed era per questo che, distratti e impostato erroneamente il pilota automatico, erano finiti contro la petroliera. Anche il ministro della marina mercantile Carlo Vizzini, piombato al porto di Livorno, avallò ufficialmente questa comoda «verità». Nessuno si chiese se in plancia di comando c’erano schermi televisivi. Come del resto non c’erano.

Il comandante della «Moby Prince», Ugo Chessa, aveva 54 anni, una lunga e onorata carriera. Era stato comandante su rotte transoceaniche e anche sul panfilo di 70 metri «Nabila» del miliardario saudita Adnan Kasshoggi. A bordo della «Moby Prince» regolarmente registrata, quella sera era salita anche la moglie, Maria Giulia Ghezzani, 56 anni di Vicopisano. Ugo Chessa aveva chiesto negli ultimi anni di limitarsi alla rotta Livorno-Olbia-Livorno per poter stare più vicino alla famiglia a Cagliari e seguire gli studi universitari dei figli Angelo e Luchino. Ancora oggi quella distorsione delle chiare parole dell’unico superstite, pesa nell’immaginario dell’opinione pubblica. Mai che la Rai abbia rettificato, facendo risentire per bene quella prima dichiarazione del mozzo o riportando i verbali del suo interrogatorio davanti al magistrato, il sostituto procuratore Luigi De Franco, incaricato dell’inchiesta.

Se la notte dello scorso venerdì 13 gennaio alla sala radio della Capitaneria del porto di Livorno c’era un uomo provetto e determinato, il capitano di fregata Gregorio De Falco, che invano cercò con tono perentorio di far risalire, sulla «Costa Concordia» il comandante Francesco Schettino (quando ancora a bordo c’erano circa 300 persone da evacuare), invece la sera del 10 aprile 1991, come si è detto, in quella sala radio c’era un giovane marinaio di leva, poco pratico e distratto. Ma dove era il comandante della Capitaneria di porto? L’ammiraglio Sergio Albanese all’ora della collisione era a La Spezia ad un ricevimento. Avvisato della collisione con la petroliera, rientrò verso Livorno, facendo trattenere sul molo una motovedetta, a sua disposizione. Invece di coordinare da terra i soccorsi, salì sulla motovedetta e senza mai dare disposizione di sorta, si trattenne in mare, in silenzio radio, fino a tardi. Rientrato in porto, alle 3 di notte l’ammiraglio dichiarò alle tv: «la nebbia è stata una concausa della collisione…; sulla “Moby Prince”, tranne il mozzo, gli altri 140 erano già tutti morti bruciati». E pensare che un ultimo flebile segnale di SOS sembra che sia partito dalla «Moby Prince», un’ora e mezza dopo la collisione con la petroliera, proprio mentre veniva salvato il mozzo.

Ci siamo soffermati in particolare sulla tragedia di 21 anni fa. Non solo per dire che i familiari di quelle 140 vittime aspettano ancora verità e giustizia, ma augurandoci che per avere giustizia e verità non debbano aspettare altrettanti anni i naufraghi, i familiari dei morti e dei dispersi della «Costa Concordia».

(Foto dei Vigili del Fuoco della Toscana)

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