Toscana

Mps, il declino di una banca tra errori, politica e misteri

«Non mi aspettavo così tanta robaccia sotto il tappeto». Così nel febbraio scorso il nuovo amministratore delegato del Monte de’ Paschi di Siena, Fabrizio Viola. E se lo dice chi avrebbe tutto l’interesse a calmare i mercati, minimizzando i problemi, c’è da credergli. Ne parliamo con Alberto Ferrarese, 38 anni, che assieme al collega dell’Agenzia Asca Pino Mencaroni ha dato alle stampe da pochi giorni l’instant book «Il Codice Salimbeni. Cronaca dello scandalo Mps» (ed. Cantagalli, e 13,50). 134 pagine che si leggono tutte d’un fiato anche da chi non ha conoscenze economiche. Tra l’altro si fa apprezzare per le note a pie’ di pagina con cui spiega il significato di certi termini finanziari.

Partiamo dal titolo. Perché alludere al best seller di Dan Brown?

«Perché in questa storia di misteri ce ne sono. Però il Codice Salimbeni per noi è il codice di condotta che è stato tenuto dai protagonisti della vicenda. Abbiamo citato una frase del presidente Alessandro Profumo: “L’ex vertice ha sfruttato persone deboli che non avevano il coraggio di dire che certe scelte erano sbagliate”. La magistratura ci dirà se c’è chi si è approfittato della situazione. C’erano molti che però non hanno avuto la forza di dire non va bene».

Mi sembra di capire leggendo il vostro libro che i problemi per il terzo gruppo bancario italiano inizino nel 2002, con l’operazione Santorini, quando Mps si butta nella finanza creativa.

«Nel 2002 c’è una svolta. Mps da una gestione del portafoglio piuttosto attenta passa a una finanza più spregiudicata e rischiosa. Con Santorini, che è uno dei primi prodotti, poi con Alexandria. Non sono in sé operazioni sbagliate, perché questi tipi di prodotti possono mirare a maggiori profitti e a coprirsi da eventuali perdite. Il problema è che in Santorini il Monte de’ Paschi non ha coperture dal rischio, può solo rimetterci».

Poi nel 2006 arriva «Alexandria»…

«È un altro prodotto strutturato, molto complesso, dal valore di 400 milioni di euro. E qui c’è il primo mistero. Per una parte, 140 milioni di euro, viene scambiato da un broker coreano, Coryo, che era fallito 8 anni prima. Chi c’era dietro? Le indagini dovranno chiarirlo».

Errori uno dietro l’altro e per avere i conti apparentemente in ordine si cercano rimedi che sono peggiori dei mali…

«Sostanzialmente sì. C’è un buco e la toppa che viene messa è peggiore del buco stesso. L’ipotesi dei magistrati a carico dei vertici è che per coprire queste perdite e avere il bilancio in attivo, perché gli azionisti devono essere remunerati, vengono fatte delle operazioni “cosmetiche”, cioè vengono imbellettati i bilanci».

Com’è che nessuno all’interno del menagement si è mai accorto o opposto a queste operazioni?

«C’è anche chi è si opposto. Nel libro facciamo l’esempio del capo della filiale di Londra, che è quella da cui passano le operazioni finanziarie, che ha denunciato queste operazioni. È stato prima rimosso dall’incarico e richiamato a Siena e poi – alla prima occasione – licenziato. Tra l’altro qui ci imbattiamo in un secondo mistero. Questo dirigente aveva preparato 30 scatoloni di materiale dal suo ufficio, li ha lasciati nell’atrio mentre è andato a prendere l’auto e quando è arrivato non c’erano più. Anche su questo c’è una denuncia alla Procura, che indaga».

Nel 2007-2008 c’è l’acquisto di Antonveneta. Vi siete fatti una ragione di cosa abbia spinto Mussari e l’intera dirigenza a portare a termine un’operazione così gravosa e incerta? Ricordiamo che alla fine ha dovuto tirar fuori 19 miliardi di euro…

«L’operazione non è di per sé illogica, nel senso che Mps aveva un presidio forte in Centro Italia e una buona presenza al Sud, ma era scoperta nel Nord-Est, dove girano tanti soldi. Fra l’altro il prezzo, peraltro alto, era in linea con le operazioni dell’epoca (di circa 10 milioni a sportello). Però va a impattare su un bilancio che – allora non si sapeva – era già molto in sofferenza. Poi scoppia la crisi internazionale, il mercato rallenta e le banche diminuiscono il business. Infine c’è la scelta della Fondazione Mps di restare sopra il 50 % nella proprietà della banca, partecipando ad aumenti di capitale molto costosi».

Ricordiamo che la Fondazione aveva allora il 54%, nonostante le norme bancarie le imponessero di scendere sotto il 50%…

«La Fondazione si trovò a tirar fuori tanti soldi che non aveva, indebitandosi e fu costretta anche a rinunciare ai dividendi, perché nel frattempo la banca era andata in passivo. Nei tempi d’oro la Fondazione era arrivata a distribuire alla città anche 230 milioni di euro all’anno, 3-4 punti di Pil senese in più. Se la Fondazione avesse ceduto parte della sua quota, scendendo magari ad un 30% quando ancora il valore delle azioni di Mps era abbastanza alto, forse non sarebbe successo niente. Dall’acquisizione di Antonveneta è la Fondazione a uscirne di più con le ossa rotte».

Quanto ha pesato la politica, e in particolare le vicende interne ai Ds prima e al Pd poi in questa storia?

«Molto. Quando si è deciso di privatizzare la banca si è inserito un soggetto, la Fondazione, che comunque è nominato dalla politica, aggiungendo solo un altro anello alla catena. La Fondazione, a chi le imputava la scelta di aver cercato di mantenere il 54% delle azioni di Mps, si è difesa dicendo: “è quello che mi hanno chiesto di fare gli azionisti”, cioè Comune e Provincia, entrambe guidate dal centrosinistra. Nel fare queste scelte la politica ha contato molto. Così per le nomine: Giuseppe Mussari, l’ex presidente, è espressione dei Ds, poi Pd senese, al quale era iscritto. Probabilmente, se la politica fosse rimasta più lontana e la banca fosse stata data in mano a “tecnici” competenti, questi prodotti sarebbero stati valutati con più attenzione o con un occhio più legato al mercato».

Poi – almeno nelle ipotesi degli investigatori  – c’è la cosiddetta «banda del 5 per cento»…

«È un filone d’inchiesta che viene da Milano, indagando su alcune società di brokeraggio finanziario. L’ipotesi degli investigatori è che ci fossero degli operatori che nel momento di fare un’operazione finanziaria ci facessero la cresta. Secondo i magistrati senesi, ai quali è arrivato il fascicolo da Milano, ai vertici di questa banda del 5% c’era Gianluca Baldassarri, responsabile dell’area finanza che poi è anche l’unico finora arrestato. È un reato molto difficile da dimostrare, perché se queste creste ci sono state, vengono fatte passare per consulenze».

Come ne esce la banca da questo anno difficile? Se non restituisce i Monti bond finirà sotto il controllo dello Stato…

«Lo Stato diventa virtualmente il primo azionista, se non ce la faranno a restituire i Monti bond – 4 miliardi sono moltissimi –. Ci sono molti dubbi da parte dei mercati. Ma più che la nazionalizzazione, tutti si aspettano l’arrivo di un socio molto importante, probabilmente un’altra banca che potrà rilevarne il controllo. Il 18 luglio c’è un’assemblea che dovrà abbattere il tetto del diritto di voto al 4%. Finora, a parte la Fondazione, se un socio aveva anche il 50 % delle azioni, valeva al massimo per il 4%. Togliendo questo vincolo si apre la strada all’ingresso di un soggetto che prenda il controllo della banca. E nel nuovo statuto della Fondazione per la prima volta è scritto che la sede può anche non essere a Siena. L’aspettativa dei mercati è che la Fondazione debba scendere ancora, forse di un 20%, e che entri un socio forte, forse un’altra banca, che ne prenda il controllo. A quel punto di Siena resterà solo il nome. Però il management attuale ha detto di voler scongiurare questa ipotesi. Vedremo se ce la faranno».

So che assieme ad altri colleghi siete stati ascoltati dal magistrato sulle email con le quali, il responsabile della comunicazione di Mps, David Rossi anticipava alla dirigenza la sua intenzione di suicidarsi lo scorso 6 marzo. Che idea vi siete fatti di quella triste vicenda?

«L’inchiesta sul suicidio di Rossi sta per chiudersi, probabilmente con l’archiviazione. Spiegare perché lo abbia fatto è molto difficile, anche perché il biglietto che ha lasciato – “Ho fatto una cavolata” – non spiega niente. Forse un insieme di vicende ha creato sulle sue spalle una pressione che non è riuscito a reggere. Lo ha spiegato anche nella email all’amministratore delegato Viola: “i magistrati mi hanno inquadrato male, io devo spiegare…”. Forse temeva di vedersi addossare responsabilità che non aveva. Anche se a onor del vero bisogna dire che la Procura di Siena ha fatto un lavoro molto attento e sempre rispettoso della privacy e dei diritti dei cittadini».