Toscana

Nucleare: sì o no?

Un dibattito serio sull’energia nucleare. Lo avevamo annunciato nel numero scorso ed ecco qui un primo approccio con le ragioni del «sì» e quelle del «no». A parlare sono due professori di chiara fama: Giuseppe Forasassi, di Pisa, ingegnere nucleare, e Giampiero Maracchi, di Firenze, climatologo. Abbiamo anche chiesto ad un teologo, don Leonardo Salutati, della Facoltà teologica dell’Italia centrale, di spiegarci con esattezza la posizione della Chiesa in materia. Crediamo che questo sia il modo migliore per riprendere un dibattito, che ha avuto anche toni accesi, dopo la diffusione con Toscana Oggi dell’inserto pubblicitario «Energia per il futuro».

A.F.PERCHE’ SI’: È sicuro e più ecologicodi Claudio Turrini

La chiusura delle centrali nucleari italiane? «Un distrastro tecnico ed economico». Il prof. Giuseppe Forasassi, presidente del corso di laurea in ingegneria nucleare dell’Università di Pisa, boccia senza appello la scelta italiana dopo i referendum del 1987. «Ha causato una perdita economica di due o tre finanziarie di una volta», ci spiega. «E in più si è ottenuto un rallentamento dello sviluppo in Italia di questa tecnologia. Per fortuna le università hanno continuato a lavorare e a confrontarsi a livello internazionale, anche se i finanziamenti nazionali al settore si erano fortemente ridotti».

Presidente del Cirten (Consorzio interuniversitario per la ricerca tecnologica nucleare) il prof. Forasassi è uno dei massimi esperti italiani del settore. E approva in pieno la decisione del governo di costruire nuove centrali, perché «in Europa il 35% di energia è prodotta dal nucleare. E nel G8 ce n’è un solo paese che non utilizza il nucleare: l’Italia. Il 15-17% dell’energia elettrica in tutto il mondo proviene dal nucleare e si risparmiano ogni anno, utilizzando le 441 centrali nucleari in funzione, milioni di tonnellate di CO2».

Ci sono dunque ragioni ambientali, perché «le centrali nucleari, se realizzate e gestite bene, hanno un impatto trascurabile sull’ambiente. Non producono CO2. Producono dei rifiuti in ridotta quantità e per i quali esistono le tecnologie di confinamento e trattamento». Ma anche di indipendenza energetica. «Noi compriamo il 16% dell’energia elettrica dall’estero, – continua Forasassi – non solo dalla Francia, ma anche dalla Svizzera che, con una popolazione molto piccola, ha cinque centrali nucleari. Compriamo energia perfino dalla Slovenia, che ha una centrale nucleare a 100 km da Trieste».

Per questo elogia la lungimiranza della Francia che «ha scelto di realizzare più centrali nucleari di quelle che servivano al suo fabbisogno interno sia per vendere un prodotto pregiato agli altri paesi europei – non solo a noi – sia per sviluppare una tecnologia che adesso esporta nel mondo. E vende in Cina ma ha due ordini anche negli Usa, che a loro volta hanno una tecnologia nucleare avanzata».

Professore, ma le centrali di oggi sono più sicure?

«Non si deve pensare a Chernobyl che appartiene ad una tecnologia a noi estranea, di un paese dell’Est europeo e che non avrebbe mai potuto essere costruita e gestita in quel modo in nessun paese occidentale. Una centrale nucleare attuale è tra gli impianti più sicuri perché è stata concepita fin dall’inizio per privilegiare la sicurezza su tutti gli altri fattori. Anche i reattori di 20 anni, attualmente in funzione in gran numero in Francia o nel Nord Europa, erano adeguatamente sicuri. Ma quelli che andiamo a costruire, come in Finlandia o in Francia – gli Epr (European Pressurized Reactor) di generazione III+ – sono caratterizzati da una sicurezza più facilmente comprensibile, più chiara, più trasparente».

Si obietta però che per costruire una centrale nucleare ci vogliono 20 anni.

«No se si prende una decisione politica adeguata. I tempi tecnici di realizzazione per fare tutto in piena tranquillità possono essere 10-12 anni. Se poi si parla solo di costruzione, su progetto esistente approvato, su un sito già scelto e autorizzato, allora in 5 anni ci si fa largamente a realizzarla».

Però il decreto attuativo della Legge sviluppo è ancora fermo…

«In Italia quando c’è un’elezione in corso tutto si ferma. Nel decreto ci sono i criteri per le localizzazioni degli impianti e del deposito delle scorie. Le decisioni saranno frutto di una discussione con gli enti locali e i cittadini. Ma questa discussione non potrà essere prolungata a tempo indefinito. Entro un anno si dovrebbe arrivare ad individuare i siti».

Realisticamente pensa che sia possibile?

«Questo è il modo in cui operano i paesi civili. Se poi si innesca una chiacchierologia protratta per dieci anni si arriva anche ai vent’anni. E a questo punto si riducono i vantaggi del nucleare».

Ma puntare sul nucleare vuol dire rinuciare alle fonti rinnovabili?

«Quello che dico da tecnologo nucleare non significa affatto che applicando la tecnologia nucleare si debbano trascurare le altre fonti. Si devono sviluppare tutte, in base al loro possibile apporto. Il mix che è stato proposto è ragionevole. Noi abbiamo già fonti rinnovabili – con l’idroelettrico, in particolare – che possono arrivare dal 18% attuale al 25%, con un ragionevole sviluppo di questo settore. Altrettanto potrebbe essere prodotto per via nucleare (io preferirei un terzo, ma va bene anche un quarto del totale). Il resto sarà inevitabilmente ancora fossile. Attingendo ora l’80% dall’estero o da fonti fossili non si può realisticamente pensare di chiudere tutti questi impianti».

PERCHE’ NO: Troppi rischi, meglio ridurre i consumidi Francesco Giannoni

Tra i contrari all’uso del nucleare il climatologo fiorentino Giampiero Maracchi. Certo riconosce anche i lati positivi del nucleare: basta una minima quantità di uranio per produrre elevate quantità di energia; e questa, a differenza di quella derivata da petrolio e carbone, non emette anidride carbonica. Però, se per tale aspetto il nucleare è «pulito», è «sporchissimo» per tanti altri, e i più inquietanti per Maracchi sono il terrorismo e le scorie. Il primo è un problema con cui dovremo convivere per chissà quanto: «se fanno saltare una centrale a Montalto di Castro, Firenze scompare, per non parlare di Roma e Grosseto». Per evitare l’attentato, vicino alla centrale bisogna approntare delle difese che costano e di per sé non sono produttive. Se è vero che un attacco terroristico può restare un’ipotesi, le scorie sono un problema concreto; non rappresentano grandi quantità, perché un reattore non usa tonnellate di uranio, ma devono essere smaltite in zone disabitate. Dove, in un paese popolato come l’Italia? Inoltre hanno bisogno di tempi lunghissimi per decadere, cioè diventare innocue. Infine devono essere trasportate dalla centrale alla «discarica»; è un problema nel problema, la cui risoluzione comporta rischi e spese.

Sul pericolo di un guasto (come nel 1986 a Chernobyl), il professore è abbastanza tranquillizzante: oggi le centrali nucleari sono molto più sicure di 30-40 anni fa; «il rischio, però, non è tanto nell’errore tecnico, quanto in quello umano; e anche se in tal caso negli impianti scatta una rigorosa serie di contromisure e controlli, non si può comunque escludere al 100% la possibilità di incidente».

Veniamo a un altro punto. Una centrale ha un costo elevato e, per costruirla, ci vogliono molti anni. Attendendone la costruzione, potremmo cominciare a ridurre i consumi. È facile, lo possiamo fare tutti e con effetti immediati: per esempio, in casa basta tenere una temperatura di 18-19°. «Perché in tante abitazioni e uffici pubblici si vuole restare in maglietta anche d’inverno, con il termostato a 24-25°? Nelle nostre abitazioni, portando un golf (o magari due), sarebbe possibile abbassare la temperatura di pochi gradi e diminuire i consumi del 20%». Questa percentuale coincide con la riduzione del 20% dei consumi energetici richiesta all’Italia dall’Europa. La stessa percentuale sarebbe risparmiata nelle bollette di ogni famiglia, nelle importazioni di combustibili e nelle emissioni di gas serra. Infine ci si ammalerebbe di meno: è noto, infatti, che le malattie da raffreddamento sono causate da eccessivo riscaldamento che secca le mucose nasali, permettendo a batteri e virus di penetrare nel nostro organismo.

Il professore illustra poi le alternative al nucleare: solare, eolico, biomasse (installabili anche in singole unità abitative), correnti marine e maree (nei paesi dove ci sono). Ma, secondo Maracchi, «ci vorrebbe un piano nazionale organico che dovrebbe chiarire quali sono le risorse, come usarle al meglio, come incentivarle».

Ci sono, invece, tante misure, spesso contrastanti fra loro e non concordate fra Stato e Regioni. Per esempio, quelle sugli sgravi fiscali per i pannelli solari sono prese a livello regionale, e non nazionale; invece, la possibilità per il cittadino di versare in rete la corrente prodotta dal suo pannello solare è regolata dallo Stato, e non dalla Regione. Insomma, le norme si accavallano, e manca un’autorità unica che coordini il lavoro di tutti.

Le energie rinnovabili più facili da usare sono il vento e il sole. Per sfruttare il primo l’Italia non è fortunata: la ventosità media annua in Italia è inferiore a quella di altri paesi. Ma il sole non manca. Il professore parla di parchi solari più concentrati (cioè estese superfici ricoperte di pannelli fotovoltaici) che producono energia attraverso specchi collegati al motore di Sterling. Questo, scaldandosi dall’esterno attraverso il pannello (l’energia solare con apposite tecnologie arriva anche a 1000 gradi), muove il pistone di cui è dotato che aziona il motore e produce energia. Non è fantascienza: in California una centrale di questo tipo rifornisce circa 400.000 persone.

In Toscana potremmo anche sfruttare la legna. Possediamo la superficie boschiva più estesa d’Italia. Senza distruggerla, ma semplicemente tagliando il tasso annuo di riproduzione del bosco, risparmieremmo un altro 20% di carburanti fossili.

Concludendo, che sia sole, vento o legna, secondo lo studioso «dovremmo rimediare alle nostre malefatte degli ultimi due secoli e dovremmo trovare un sistema in equilibrio con le leggi naturali, che sono quelle che ci garantiscono di più, e che non hanno previsto l’uranio per creare energia».

COSA DICE LA CHIESA: Un’energia da usare (con prudenza) per lo sviluppodi Leonardo SalutatiDocente di teologia morale socialealla Facoltà Teologica dell’Italia centrale

L’attuale Papa Benedetto XVI, così come i suoi predecessori, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, e i Padri del Concilio Vaticano II, sviluppando la dottrina sociale della Chiesa sulla questione nucleare, hanno sempre denunciato con fermezza le armi nucleari. Ma il veto della Chiesa non si estende affatto all’uso dell’energia nucleare come strumento di promozione di un equilibrato ed equo sviluppo dei popoli. L’uso pacifico della tecnologia nucleare nel settore energetico è sempre stato auspicato, a patto che i pilastri sui quali si fondi la diffusione dell’energia nucleare a livello mondiale siano effettivamente la sicurezza e lo sviluppo. Al riguardo il card. Martino, allora presidente del Pontificio Consiglio «Iustitia et Pax», ricordava in una intervista alla Radio Vaticana dell’agosto 2007 che: «L’energia nucleare non va guardata, come spesso accade ai nostri giorni, con gli occhiali del pregiudizio ideologico, ma con quelli dell’intelligenza, della ragionevolezza umana e della scienza, accompagnate dall’esercizio sapiente della prudenza, nella prospettiva di realizzare uno sviluppo integrale e solidale dell’uomo e dei popoli».

In questo senso la posizione della Santa Sede di membro fondatore dell’IAEA, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, istituita con il mandato di «sollecitare ed accrescere il contributo dell’energia atomica alle cause della pace, della salute e della prosperità in tutto il mondo» (art. II dello Statuto), gli consente di seguire da vicino, da un lato il processo di disarmo e la non proliferazione nucleare, dall’altro la ricerca e le possibili applicazioni pacifiche della tecnologia nucleare.

A questo proposito la Santa Sede ha assunto da tempo una posizione chiara, ribadita da Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2006 («Nella verità, la pace». Messaggio per la giornata della pace 2006, sulla necessità di utilizzare in favore dello sviluppo dei paesi poveri le risorse energetiche che derivano dall’attuazione dei trattati sul disarmo nucleare.

Il nucleare, infatti, è una tecnologia avanzata che consente di alimentare lo sviluppo economico e sociale attraverso la disponibilità di energia elettrica a basso costo e a basso impatto ambientale, e soprattutto di lasciare ai paesi che non dispongono di tecnologie avanzate la possibilità di utilizzare le fonti energetiche di più facile sfruttamento, come ad esempio i combustibili fossili. Alcune cifre ci aiutano a renderci conto della portata della questione. Nel 2006 il nucleare ha prodotto nel mondo circa 2.660 miliardi di kWh, che altrimenti sarebbero stati prodotti utilizzando carbone. In tal modo, nel solo 2006 il nucleare ha consentito di evitare l’immissione in atmosfera di 2 miliardi di tonnellate di CO2, realizzando in un solo anno l’equivalente di due Protocolli di Kyoto. Senza considerare che se l’attuale produzione nucleare fosse sostituita ricorrendo ai combustibili fossili, l’incremento del loro prezzo sui mercati internazionali sarebbe tale da renderne impossibile l’uso da parte dei paesi emergenti, e meno che mai da parte dei paesi poveri.

Sempre il card. Martino nella citata intervista osservava che l’apprensione per la sicurezza e la salute dell’uomo e del pianeta è più che legittima alla luce dei più o meno recenti disastri nucleari, tuttavia escludere l’energia nucleare come petizione di principio, oppure per la paura dei disastri, potrebbe essere un grave errore. Per questo è necessario impostare correttamente il discorso di una ipotetica politica nucleare che, assicurata la sicurezza degli impianti e dei depositi, regolati in maniera severa la produzione, la distribuzione e il commercio di energia nucleare, possa offrire i presupposti per una politica energetica integrata, che contempli, accanto a forme di energia pulita, anche l’energia nucleare. In definitiva, seguendo le indicazioni del paragrafo 470 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa, che sulla questione energetica invita la comunità scientifica a continuare nel triplice impegno di «identificare nuove fonti energetiche, sviluppare quelle alternative ed elevare i livelli di sicurezza dell’ energia nucleare», è necessario e doveroso valutare con la massima prudenza e obiettività la possibilità di un uso pacifico della tecnologia nucleare, nella consapevolezza che le opere dell’ingegno umano, quindi anche le conquiste nel campo nucleare, possono essere un male per il cattivo uso che se ne può fare, e non un male in quanto tale.

Giovanni XXIII, Mater et magistra (15 maggio 1961) nn.34-35Concilio Vaticano II, Gaudium et spes (7 dicembre 1965) n. 34Paolo VI, Messaggio alle Nazioni Unite (24 maggio 1978) n.6 Giovanni Paolo II, Discorso al Centro Europeo per la Ricerca Nucleare (CERN) (15 giugno 1982) n. 9Giovanni Paolo II, Discorso ad un gruppo di fisici impegnati nella ricerca sulle alte energie (18 dicembre 1982) nn. 3 e 5Pont. Cons. Iustitia et Pax, Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004) n. 470Benedetto XVI, Messaggio per la giornata della pace 2006 (1 gennaio 2006) n.13Benedetto XVI, Angelus (29 luglio 2007)

LA SCHEDA: Dai referendum del 1987 alla «Legge sviluppo»

L’8 novembre 1987 in Italia si votò per tre referendum che riguardavano l’energia nucleare. I votanti furono il 65,1% degli aventi diritto, con un’altissima percentuale di schede nulle o bianche che andarono dal 12,4% al 13,4%.

Nel primo referendum si chiedeva l’abolizione dell’intervento statale qualora un Comune non avesse concesso un sito per l’apertura di una centrale nucleare nel suo territorio. I sì vinsero con l’80,6%. Il secondo riguardava l’abrogazione dei contributi statali per gli enti locali per la presenza sui loro territori di centrali nucleari (79,7% i sì). Il terzo prevedeva l’abrogazione della possibilità per l’Enel di partecipare all’estero alla costruzione di centrali nucleari (71,9% i sì). I tre referendum non vietavano in modo esplicito la costruzione di nuove centrali (né si imponeva la chiusura di quelle esistenti o in fase di realizzazione).

È tuttavia evidente che gli italiani erano poco propensi ad accettare il proseguimento delle attività nucleari, influenzati dai disastri avvenuti nelle centrali nucleari di Three Mile Island (Stati Uniti, 1979) e Chernobyl (Unione Sovietica, 1986).  Il risultato dei referendum fu interpretato dai partiti come un «non gradimento» della maggioranza dei cittadini italiani all’utilizzo in Italia dell’energia nucleare a fini di elettro-generazione.

L’esito del referendum portò alla chiusura delle quattro centrali nucleari presenti in Italia: Trino Vercellese e Caorso furono arrestate nel 1987 subito dopo il referendum. Il reattore di Latina era stato fermato nel 1986. È del 1978 lo stop per la centrale del Garigliano a causa di problemi di varia natura.

Negli anni il ritorno al nucleare è stato affrontato poche volte dai politici, mai in maniera organica. Il dibattito politico si è riaperto dopo il black-out del 2003 fino alla decisione del Governo del 2008 di ripristinare in Italia una capacità nucleare a fini di elettro-generazione nonostante l’Italia abbia già oggi più centrali di quelle necessarie a coprire i fabbisogni attuali e futuri. Il ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola ha proposto di costruire 10 nuovi reattori per  ridurre la dipendenza energetica dall’estero (anche se l’uranio verrebbe comunque dall’estero), tagliare le emissioni di gas serra e abbassare il costo dell’energia elettrica all’utente finale (in realtà esito tutt’altro che certo).

Dopo le dichiarazioni di Scajola si sono levate le obiezioni: il nucleare prevede costi altissimi (attualmente privi di copertura finanziaria), la scala dei tempi per la costruzione delle centrali non è compatibile con l’impellenza dei problemi (caro petrolio e riscaldamento globale, in primis), le scorte di uranio sul pianeta sono limitate (si esaurirebbero prima di ottenere un ritorno degli investimenti), le scorie radioattive sono difficilmente gestibili.

Il ritorno dell’Italia al nucleare è previsto dalla cosiddetta «Legge sviluppo» approvata il 9 luglio 2009 (legge 99 del 23 luglio) che stabilisce che entro 6 mesi siano definiti la localizzazione e la tipologia degli impianti nucleari. Il 22 dicembre 2009 il governo ha approvato i relativi decreti legislativi: si parla di criteri di localizzazione e di misure di compensazione e si ribadisce che l’ultima parola spetta al governo. Ma i siti si conosceranno solo a primavera, dopo le regionali. Le perplessità sono molte e il duro confronto è appena iniziato. Il decreto – che deve ancora passare per il Parlamento – stabilisce che «uno schema di parametri di riferimento relativi a caratteristiche ambientali e tecniche» venga stabilito di concerto tra i ministeri interessati (Sviluppo, Ambiente e Trasporti) e su proposta della costituenda Agenzia per il Nucleare entro 60 giorni dall’ entrata in vigore, prevista per metà febbraio.

Nei giorni scorsi tredici Regioni si sono schierate contro le centrali nucleari, favorevoli invece Veneto, Friuli Venezia Giulia e Lombardia. I Comuni, intanto, minacciano azioni legali se non arrivano le compensazioni per quei luoghi che ospitano le centrali.

I più scettici poi non perdono l’occasione: non riusciamo ad aprire una discarica o a costruire un inceneritore – dicono – figuriamoci costruire una centrale nucleare in pochi anni.

Ennio Cicali