Toscana

Pillola abortiva, anche la Toscana era già pronta

di Claudio Turrini

Nella primavera del 2003 l’assessore regionale alla sanità, Enrico Rossi, stava pensando di dare il via libera all’aborto farmacologico, quello con la pillola RU486, tanto per intenderci. La delibera era già pronta e venne sottoposta alla Commissione regionale di Bioetica il 18 marzo 2003, dopo che già in gennaio la stessa commissione aveva espresso un parere sostanzialmente positivo su una possibile sperimentazione. Ma la delibera di Rossi, già corredata del protocollo di somministrazione e dello schema di consenso informato da sottoporre alle donne, non parlava di «sperimentazione», quanto di introduzione a tutti gli effetti della pillola abortiva nelle strutture pubbliche, per «una piena applicazione della legge 194/78 al fine di assicurare un servizio sempre più rispettoso delle scelte delle donne, della loro dignità, riservatezza e integrità psico-fisica», essendo – quello farmacologico – «un metodo meno invasivo rispetto all’intervento chirurgico». Del resto lo stesso Rossi si era già dichiarato favorevole alla Ru486 in varie interviste e anche intervenendo in consiglio regionale, il 14 gennaio 2003. In quell’occasione, replicando a tre interrogazioni di Marco Carraresi (Ccd), Pieraldo Ciucchi (Sdi) e Marisa Nicchi (Ds), Rossi sostenne «che l’uso è così riconosciuto e l’evidenza scientifica è così universalmente ammessa, che la forma della sperimentazione risulta anche discutibile». Insomma, non c’era bisogno di perder tempo a sperimentare, si poteva passare subito all’utilizzo del farmaco. La mozione presentata da Carraresi per escludere in Toscana una qualsiasi introduzione, anche in forma di sperimentazione, della pillola abortiva venne respinta dal Consiglio e tutto sembrava far credere che di lì a poco la Toscana sarebbe stata la prima regione italiana ad autorizzare l’uso del mifepristone. Ai primi di giugno era tutto pronto. La bozza di provvedimento («Legge 194/78. Interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico»), che autorizzava le aziende sanitarie toscane ad acquistare all’estero la pillola (in Italia non è registrata) e a metterla a disposizione per gli interventi di interruzione volontaria della gravidanza, aveva già ricevuto il disco verde dal Comitato regionale di bioetica (col voto contrario di Carraresi) e dal Consiglio sanitario regionale. Poi improvvisamente tutto si blocca, senza che all’esterno trapeli nulla. Probabile che il presidente Claudio Martini abbia dovuto fare i conti con l’opinione nettamente contraria del vice-presidente Angelo Passaleva (Margherita) e dell’assessore all’ambiente Tommaso Franci (verdi). Fatto sta che il provvedimento non arrivò mai in giunta.Adesso che la questione è stata rilanciata dalle polemiche tra il «Sant’Anna» di Torino e il ministro della sanità Francesco Storace, anche in Toscana c’è chi è tornato a chiedere di seguire l’esempio dell’ospedale piemontese. Due radicali toscani, Antonio Bacchi, segretario dell’associazione «Andrea Tamburi» e Marco Cecchi, presidente di «LiberaPisa», preannunciando un’analoga iniziativa in consiglio regionale dello Sdi, si sono rivolti pubblicamente all’assessore Rossi perché su questo argomento passi «dalle parole ai fatti». Invito rilanciato da Massimo Srebot, primario di ginecologia del «Lotti» di Pontedera, che ha chiesto dalle pagine di alcuni quotidiani di poter sperimentare anche lui la pillola Ru486. Ma la reazione dell’assessore Rossi, che pure aveva duramente criticato il ministro sul caso «Sant’Anna», è stata piuttosto cauta. «L’intervento del ministro Storace sul Piemonte – ha dichiarato – è stato invasivo, non convincente e strumentale. Non ha senso adesso permettergli di replicarlo anche sulla Toscana. Invito socialisti e radicali a riflettere e approfondire ancora il tema della pillola abortiva e del suo utilizzo. Adesso non sarebbe utile, soprattutto per le donne, andare ad uno scontro».Un medico radicaledietro la sperimentazionedel «Sant’Anna»La prima richiesta di sperimentazione della pillola abortiva Ru486 all’ospedale «Sant’Anna» di Torino risale al 2000, quando fu avviato l’iter delle autorizzazioni per volontà del primario Mario Campogrande e del dottor Silvio Viale, responsabile della sperimentazione e presidente dell’Associazione radicale «Adelaide Aglietta».Passano quasi due anni e nel dicembre 2002 arrivano aTorino gli ispettori della Direzione generale della Farmacovigilanza, ma soltanto a fine 2004 l’Istituto superiore di Sanità da un lato e il Comitato bioetico della Regione Piemonte dall’altro fanno arrivare al «Sant’Anna» il loro parere positivo su un protocollo che prevede che la donna si presenti in ospedale tre volte: «il primo giorno le verrà data la pillola, il terzo giorno il misoprostol, il farmaco a base di prostaglandine che favorisce l’espulsione. Il decimo giorno, un ultimo controllo».La sperimentazione parte il 10 settembre 2005 con 6 interventi di interruzione di gravidanza a settimana, fino ad un tetto di 400 donne. Il 21 settembre arriva però la notizia che il ministro della salute Francesco Storace ha sospeso la sperimentazione perché gli ispettori dell’agenzia del Farmaco (Aifa), inviati sul posto l’11 settembre per controllare la correttezza della procedure, avrebbero riscontrato una serie di irregolarità, tra cui «perfino il caso di una paziente che ha avuto una espulsione parziale, con seguito emorragico, fuori dal ricovero ospedaliero».Il decreto del ministro prevede che la sperimentazione possa «essere ripresa a condizione che al Ministero della salute sia preventivamente notificata la avvenuta, piena regolarizzazione delle procedure, e nel rispetto rigoroso delle indicazioni del Consiglio Superiore di Sanità». Nel dettaglio si chiede «che siano state rispettate le seguenti condizioni: a) i protocolli sperimentali per l’aborto farmacologico prevedano l’inserimento delle procedure di ricovero ospedaliero sin dalla somministrazione del 1° farmaco; b) nel protocollo siano inseriti chiari dettagli informativi e test sulle misure da adottare, in caso di mancato aborto trascorse le 24 ore in regime di ricovero ospedaliero, dopo la somministrazione del 2° farmaco; c) alle pazienti e al personale medico siano fornite integrazioni dei testi informativi, con le avvertenze adottate per tali farmaci dalla Food and Drug Administration (FDA)… e con specifica adeguata informazione sulla percentuale di aborti scientificamente accertati dopo la prima somministrazione». L’Ospedale torinese decide di ricorrere al Tar del Lazio contro lo stop del ministro, ma intanto interrompe la sperimentazione dopo una trentina di interventi.Il 4 ottobre, però, l’ospedale torinese annuncia che la sperimentazione può ripartire perché il Comitato di bioetica del Piemonte ha dato il via libera ad nuovo protocollo, che recepisce le indicazioni degli ispettori del ministero, prevedendo almeno tre giorni di ricovero. Sarà inoltre necessario ristampare la modulistica e riorganizzare i turni dei ginecologi coinvolti nella sperimentazione: non essendo più in day hospital ne servirano di più.Intervista alla biologa Olimpia Tarzia:«Un inganno per le donnelasciate sempre più sole»Un colossale inganno per le donne. Per Olimpia Tarzia, biologa con specializzazione in bioetica, segretaria generale del Movimento per la vita italiano, l’introduzione nel nostro paese della pillola RU486 «è un rischio da evitare assolutamente». E questo non per l’avversione di fondo alla pratica dell’aborto – che certamente rimane – ma per «un discorso prettamente umano, medico, sanitario», sul quale dovrebbero essere d’accordo per prime proprio le donne. «L’Italia si troverebbe a ripercorrere strade che già in altri paesi sono state considerate o fallimentari o pericolose», ci spiega. Ancora una volta rischiamo di ripetere gli errori degli altri, anziché imparare dalla loro esperienza. «Basta pensare che alcuni, paesi, come la Francia e la Germania, dove la pillola è in uso – prosegue Olimpia Tarzia – stanno valutando l’ipotesi di tornare indietro, non tanto per motivi etici, quanto per i danni alla psiche della donna». Perché il punto è proprio questo. Non è affatto vero, come recitava anche la proposta di delibera della Toscana, che sia un «metodo meno invasivo rispetto a quello chirurgico». «Con l’aborto chirurgico la donna delega ad un terzo, un estraneo, e spesso in anestesia totale, l’intervento sul bambino. Con l’RU486 è lei che si autosomministra la dose letale per il bambino e vive “in diretta”, a casa sua, l’aborto, che si verifica lentamente con contrazioni, emorragie, dolore… Cioè lo vive con la piena consapevolezza di aver procurato lei la morte del suo bambino. Sono i motivi per cui la Francia ci sta ripensando. Anche banali conoscenze di psicologia ci dicono che in questo caso l’elaborazione del lutto diventa devastante per la psiche della donna». «Dire che l’aborto farmacologico è meno traumatico di quello chirurgico», quindi «non è vero. Chi pensa che prendendo “una pillolina” non ci si accorge di niente sbaglia. Oltretutto la direzione in cui ci si spinge è una direzione in cui si va a privatizzare l’aborto e si lascia la donna sempre più sola, invece di intervenire con il necessario sostegno».Su questo punto la segretaria del Movimento per la vita si toglie volentieri un sassolino dalla scarpa: «Chi vuole introdurre la RU486 dice: “evitiamo alla donna il trauma dell’aborto chirurgico”. Abbiamo visto che non è così. Però registriamo che finalmente si parla di “trauma”. Sono 30 anni che i sostenitori dell’aborto negano che ci sia un trauma, quando c’è una letteratura internazionale sulla sindrome post-aborto…».Ma accanto a quelli psicologici, prosegue la biologa, ci sono anche altri problemi connessi all’uso della RU486, perché sono già morte almeno cinque donne a seguito della somministrazione della pillola. Quindi non è vero neanche che ci siano meno rischi per la salute fisica. E, in ultimo, ci sono anche dubbi sulla procedura di somministrazione che non sembra proprio in linea con quanto prevede la legge sull’aborto. «Vengono rispettate – si chiede la biologa– tutte le procedure previste dalla legge 194, cioè il famoso colloquio, l’attesa di una settimana?». Sembrerebbe di no. Inoltre, «in Francia viene fatto firmare un foglio di consenso informato nel quale – dal momento che nel 5% dei casi l’aborto chimico non è efficace – la donna dichiara di sottoporsi obbligatoriamente ad un eventuale aborto chirurgico se si rendesse necessario». È chiaro il senso di questa procedura francese che rischieremmo di copiare: il sistema sanitario si «assicura» contro richieste di risarcimento danni per eventuali malformazioni del feto causate dalla pillola. «Ma la libertà della donna di poterci ripensare, prevista dalla 194, dove va a finire?», si chiede ancora la biologa. «Non vogliamo colpevolizzare le donne, noi vogliamo renderle consapevoli. E siccome dire che con l’RU486 non sono traumatizzate, è un inganno, questo non è, al contrario, renderle consapevoli».L’unica cosa vera che affermano i sostenitori della «pillola» abortiva è che questa avrebbe costi minori per il sistema sanitario nazionale, nonostante che la stessa pillola non costi poco essendo prodotta da una sola casa farmaceutica francese. «Ma è una considerazione – osserva la segretaria del Mpv – che non dovrebbe essere la logica che sta dietro a scelte di questo tipo. C’è un accanimento contro la vita che ci deve far pensare. Perché investire energie economiche, mentali, di ricerca verso meccanismi di morte e non verso meccanismi di aiuto?».La schedaLA RU486La RU486 (Mifepristone) è un «anti-ormone» che imita il progesterone, l’ormone che permette di sostenere la crescita dell’ovulo fecondato, segnalando all’utero di diventare ricettivo. Il mifepristone si connette ai ricettori del progesterone ma impedisce che parta il messaggio che questo trasferirebbe naturalmente. In questo modo l’embrione viene staccato dalle pareti dell’utero e muore per mancanza di sostanze nutritive e di ossigeno (per questo si usa dire che «muore di fame»). Il mifepristone va assunto però entro le sette settimane dal concepimento, perché oltre quel limite il progesterone è troppo alto e il farmaco non ha più effetto. Per poter garantire l’efficacia e l’espulsione dell’embrione (che con la sola RU-486 varia tra il 60 e l’80% dei casi) è necessario per la donna assumere a distanza di due giorni anche una dose di prostaglandine, che provocano forti contrazioni anche molto dolorose. In questo modo l’efficacia sale al 95%.Il farmaco a base di Mifepristone nacque nel 1980 per iniziativa di un ricercatore francese dell’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica, Etienne-Emile Baulieu. La pillola, originalmente etichettata come ZK 95.890, fu «acquistata» immediatamente dalla casa farmaceutica Roussel-Uclaf, sussidiaria francese del gigante farmaceutico tedesco Hoechst, e quindi rietichettata come Roussel-Uclaf 38486 (da cui l’abbreviazione RU-486 con la quale è conosciuta). La Roussel-Uclaf, nonostante dubbi per alcune complicazioni registrate, fu «costretta» dall’allora ministro francese della Sanità, Claude Evin a mettere la pillola sul mercato con il nome «Mifégyne», perché essa – dichiarò il ministro – era ormai «proprietà morale delle donne».Negli anni ’90 si scatena la battaglia per commercializzare la RU-486 negli Usa. Malgrado le forti pressioni delle grandi lobby abortiste, sostenute dall’amministrazione Clinton (1993-2000), la Hoechst si rifiuta di chiedere la licenza negli Usa ma alla fine (1994) accetta di cederla gratuitamente al «Population Council», potente associazione fondata nel 1952 da John Rockefeller III per promuovere il controllo delle nascite nei Paesi in via di sviluppo. Il «Population Council» crea le strutture mediche e commerciali necessarie, incluso la «Danco Laboratories LLC», società farmaceutica il cui unico prodotto è tuttora il «Mifeprex» (nome commerciale negli Usa per il mifepristone). Ma la Danco ha difficoltà a trovare un’industria disponibile a produrre la pillola, sia negli Usa che all’estero. L’unico partner disponibile viene trovato in Cina, la «Hua Lian Pharmaceutical Co.», che già lo produce per il suo paese. È così che il «Mifeprex» diventa il primo farmaco «made in China» commercializzato negli Usa. Già, perché nel frattempo – giugno 2000 – la Federal and Drug Administration (Fda), cedendo alle forti pressioni e ai grandi interessi in ballo, concede l’autorizzazione pur con forti limiti dovuti alla pericolosità del farmaco. Il 19 giugno 2005 la Food and Drug Administration ha messo in guardia sui rischi dell’aborto chimico «consapevole dei quattro casi di morti settiche negli Stati Uniti fra il settembre 2003 e il giugno 2005, a seguito di aborto medico con mifepristone e misoprostol». Anche in Cina, dove nel 1992 la pillola abortiva era stata messa in commercio come prodotto da banco, nel 2001 si è compiuto un passo indietro, ammentendone l’uso solo all’interno di un’attenta procedura ospedaliera.IL NORLEVOMeglio conosciuto come «pillola del giorno dopo», è anch’esso un prodotto abortivo. Il Norlevo è costituito da due compresse di 750 mcg l’una che devono essere assunte entro e non oltre le 72 ore dal rapporto a rischio (ma a 72 ore ha un efficacia solo del 58%). È un farmaco a base di progestinico, un ormone molto potente, e blocca l’annidamento in utero della morula (per questo viene definito «antinidatorio»), provocando quindi un aborto chimico. In sostanza agisce proprio durante quel piccolo viaggio che la morula compie nei giorni successivi alla fecondazione per andarsi a posizionare in quella che sarà l’abitazione durante la gravidanza materna. Aborti in Toscana nel 2002 8.158Ivg9,1Ivg per 1000 donne in età fertile24,4Ivg per 1000 donne in età fertile per separate, divorziate e vedove6.100donne italiane sottoposte a Ivg 1.034donne dell’Europa centro-orientale sottoposte a Ivg2.020le Ivg in provincia di Firenze (punta massima provinciale)258le Ivg in provincia di Pistoia (punta minima)71,0 %Percentuale Ivg urgenti in provincia di Firenze2,9%Percentuale Ivg urgenti in provincia di LivornoFonte: Istat, L’interruzione volontaria di gravidanza in Italia, 2005

Ru486, la via del regresso