Toscana

Povertà, una trappola da cui in tanti non riescono più a liberarsi

Una trappola da cui è sempre più complicato riuscire a liberarsi. È il ritratto della povertà nel territorio regionale che emerge dalla Rapporto 2017 delle Caritas della Toscana, presentato pubblicamente lunedì scorso nella sala Pegaso dell’amministrazione regionale. E significativamente intitolato «Pietre di scarto?», «perché – ha ammonito mons. Roberto Filippini, vescovo di Pescia e incaricato Caritas della Cet – c’è davvero il rischio che i nostri servizi possano diventare la discarica sociale dell’umanità di scarto del nostro tempo». I numeri, in effetti lasciano poco spazio alle interpretazioni: nel 2016 le Caritas toscane hanno incontrato 23.057 persone (+4,6% rispetto al 2015) e un terzo di essi (33,3%) è considerato un caso di povertà cronica in quanto è conosciuto e seguito dai centri d’ascolto da oltre sei anni. La novità è che le persone in questa condizione sono state più numerose di quelle incontrate per la prima volta nel 2016: «L’incidenza delle persone che vivono in una condizione di marginalità ed esclusione sociale prolungata continua a crescere dato che – hanno spiegato i redattori del Rapporto – nel 2014 non arrivava ad un quinto del totale (18,4%) e, in due anni, ha fatto segnare un aumento dell’11,9%. L’incremento, peraltro, è ancora più marcato e visibile in valore assoluto dato che le persone che vivono una situazione di povertà cronica nel 2015 erano 5.151: in valore assoluto significa 2.528 in più in dodici mesi per un incremento del 49,1%».

L’altra novità del 2016 è che i cittadini stranieri seguiti dalla Caritas, dopo dieci anni, sono tornati ad aumentare in modo più intenso rispetto agli italiani. «Beninteso – hanno spiegato i redattori – la differenza è lieve dato che gli immigrati sono aumentati del 5,2% rispetto al 2015 (da 14.204 a 14.936) mentre le persone italiane sono cresciute del 3,6% (da 7.837 a 8.121)». Eppure il dato è sufficiente per segnare una lieve inversione di tendenza: dal 2007 al 2015, infatti, l’incidenza percentuale delle due popolazioni ha sempre teso ad avvicinarsi tanto che gli stranieri sono scesi dall’80,1% del 2007 al 63,9% del 2015 e per converso gli italiani sono passati dal 19,9 al 36,1% nello stesso arco temporale. Nei successivi dodici mesi, invece, sia pure in modo molto timido, la tendenza si è invertita: l’incidenza degli stranieri, infatti è salita al 64,8% (+0,9%) e quella degli italiani è scivolata al 35,2%.

«Due le possibili chiavi interpretative: da una parte è verosimile credere che abbiano cominciato ad affacciarsi ai Cd’A anche i richiedenti asilo e, in particolare, i cosiddetti “diniegati”, ossia coloro che dopo diversi mesi trascorsi nelle strutture d’accoglienza (siano esse Cas o Sprar) si sono visti respingere la richiesta d’asilo e sono usciti dal circuito dell’accoglienza finendo, purtroppo, spesso ad ingrossare il bacino dell’irregolarità». Questo, fra l’altro, giustificherebbe il repentino aumento ai centri Caritas di cittadini provenienti da Paesi e aree geografiche strettamente collegate al flusso di richiedenti asilo: è il caso dei somali, aumentati del 45,9%, ma anche di ghanesi (+84,4%), gambiani (+129,4%), maliani (+32,6%) e della Guinea (+52,9%). L’altro aspetto che merita una sottolineatura è il tema delle cosiddette «povertà di ritorno», fenomeno che riguarda quelle persone che sono tornate a riaffacciarsi ai centri d’ascolto a distanza di qualche anno dall’ultima volta in quanto precipitate in una nuova situazione di difficoltà e disagio, spesso conseguenza della crisi economica. «Nel 2016, però, il fenomeno sembra aver interessato in modo particolare la componente immigrata se è vero che fra coloro che sono seguiti o conosciuti da un Cd’A da almeno sei anni gli stranieri in dodici mesi gli stranieri sono passati da 3.117 a 5.206 realizzando un incremento del 67,1%».

Il dramma, però, rimane la disoccupazione: anche nel 2016 oltre i tre quarti (75,9%) di coloro che hanno chiesto l’aiuto di un Cd’A sono senza lavoro, un’incidenza sostanzialmente costante da un triennio quasi a prescindere dall’andamento dell’economia. Non meno preoccupante, però, è il fatto che siano poco meno di un sesto (15,4%) del totale le persone che hanno avuto la necessità di rivolgersi ad un servizio della Caritas nonostante abbiano un reddito mensile, sia esso derivante da lavoro (11,2%) oppure da pensione (4%). Nemmeno la casa, comunque, è più un argine allo scivolamento verso condizioni di povertà e disagio dato che i due terzi (66,6%) di coloro che si sono rivolti alla Caritas vive in un abitazione stabile: nel 46,2% in affitto, nel 10,8% in un alloggio Erp e nel 7% in una casa di proprietà. Rispetto al 2015, aumenta l’incidenza percentuale delle situazioni di provvisorietà (dal 18 al 20,4%) e di marginalità abitativa, situazione che riguarda il 13% dei casi, pari a 2.997 persone.

«La sfida, adesso, è il Rei, la prima misura strutturale di contrasto alla povertà realizzata in Italia – ha spiegato l’assessore regionale al welfare Stefania Saccardi –: lavoreremo per far sì che dispieghi tutto il suo potenziale e consenta effettivamente di rompere le catene dell’impoverimento e innescare un’inversione di tendenza nei percorsi di cronicizzazione della marginalità sociale». Eppure monsignor Filippini ha invitato a non perdere la speranza. «Dobbiamo impegnarci tutti quanti e lavorare perché, proprio come accade con i rifiuti, anche le cosiddette discariche umane possano diventare una miniera di opportunità in primo luogo per i diretti interessati ma anche per la società tutta».

Una sfida accolta dal delegato regionale delle Caritas toscane Alessandro Martini: «Il rapporto è uno strumento agile che dà conto di un impegno reale e quotidiano nelle nostre strutture, fatto di un accompagnamento sempre più prolungato nel tempo alle situazioni di maggiore marginalità sociale, e anche di una proficua collaborazione con la regione – ha detto –. Insieme intensificheremo l’impegno per essere all’altezza delle sfide che ci chiede un tempo complesso come quello che stiamo vivendo».