Toscana

Quaresima, quella cenere sacra ci ricorda che siamo nati per vivere. La riflessione di Sergio Givone

«Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris». Il rito delle ceneri inaugura la Quaresima con un ammonimento passato in proverbio che ci ricorda la nostra condizione: siamo misera cosa, siamo un quasi-niente destinato al niente. Tratto dalla Genesi (3, 19), il versetto riassume la condanna che grava su di noi fin dalla nostra cacciata dal paradiso terrestre. Non senza ragione c’è stato chi ha letto il «Qohelet», il libro della Bibbia che mette a nudo tutta la nostra insignificanza e tutta la nostra pochezza, alla luce di quel versetto e ha tradotto il «vanitas vanitatum» come «l’infinita vanità del tutto» (Leopardi) o come «fumo e vento e infinito vuoto» (Ceronetti). Altri poeti però – sempre loro, i poeti, questi interpreti privilegiati delle Scritture, che, non lo si dimentichi, sono opera di poesia – ci hanno fatto scoprire nelle ceneri ben altro. Per esempio Paul Celan, ebreo, scampato ad Auschwitz, dove i genitori hanno trovato la morte e dove un intero popolo è stato letteralmente ridotto in cenere. Dice Celan: sarà pur vero, come sostengono i filosofi, che Auschwitz è la stazione finale di un destino di morte e di distruzione in cui siamo intrappolati e che il nichilismo è la cifra inesorabile della storia umana. Ma quella cenere, per quanto sia la cosa più prossima al nulla che ci sia, è infinitamente più che cenere. È qualcosa di sacro. Qualcosa che in un mondo completamente desacralizzato, com’è il nostro, ci mantiene in rapporto con l’eterno. Infatti è memoria della vita offesa. È una promessa di consolazione. È il dovere della solidarietà nel dolore, pena la nostra completa disumanizzazione. «Un’aureola di cenere», dice il poeta in una sua lirica.

Anche la cenere del primo giorno di Quaresima è infinitamente più che cenere. Essa è un simbolo che non si limita a dirci quel che per altro già sappiamo benissimo, e cioè che dobbiamo morire. Al contrario, è un invito a riflettere sul fatto che la morte – ogni morte, specialmente di coloro che non hanno chi li pianga – lascia intravedere sempre e comunque come in filigrana una speranza di salvezza o quantomeno un anelito di pace che hanno il sapore dell’assoluto. Perciò la cenere è sacra. Lo è in quanto custodisce ciò che l’uomo ha di più prezioso.Il tempo liturgico della Quaresima, dal mercoledí delle ceneri al giovedì santo, è il tempo in cui ciascuno è chiamato al raccoglimento e alla penitenza. Ma penitenza in che senso? In molti sensi, naturalmente, ma soprattutto in uno. Questo: penitenza significa conversione, e conversione significa, né piú né meno, inversione del senso di marcia: era tutta diretta verso l’esteriorità, la nostra esistenza, e ora deve esserlo verso l’interiorità. Era verso le cose superflue ed effimere, ora deve esserlo verso l’essenziale. Era verso il mondo, ora deve esserlo verso Dio.Ciascuno sa, nel profondo del suo cuore, che cosa sia per lui l’essenziale. E se le ceneri, ossia ciò che resta dopo la morte, lo preservano, faremmo bene a chiederci se ciò non dipenda dal fatto che la sofferenza e la morte – ogni sofferenza e ogni morte, a cominciare dalla sofferenza inutile e dalla morte dell’ultimo degli uomini – sono sempre e comunque scandalose, perché attestano che non siamo nati per morire, ma per vivere. È precisamente una domanda di questo tipo a farci comprendere quali e quanti significati abbia la quaresima. Abbracciando l’arco temporale che va dal mercoledì delle ceneri al giovedì santo, la Quaresima ci accompagna alla soglia del triduo pasquale e ci introduce nel mistero più grande. Il mistero per cui in ogni uomo che muore, muore il Figlio di Dio. Così non fosse, la morte non sarebbe quella che è. Apparterrebbe all’ordine naturale delle cose. E non rappresenterebbe, come invece rappresenta, un segno di contraddizione.La liturgia della Quaresima ci porta a fare i conti con un evento che è molto più grande di noi e che al tempo stesso è la nostra aspirazione più profonda e più vera. In un passato che non è poi così remoto, un’azione liturgica forse sapientemente predisposta o forse spontanea evocava la risurrezione. Il venerdì santo le funzioni religiose venivano sospese, fino alla messa di Pasqua. Le campane erano fatte tacere e addirittura legate. Il crocifisso era coperto da un panno viola. Sull’altare, candele tali da durare tutta la notte, ma non oltre. Il silenzio, rotto dallo stridio delle raganelle fino a tarda sera, finalmente regnava solenne.Ed ecco che, prima dell’alba, qualcuno si avvia verso la chiesa, come per la prima messa. Ma non c’è nessuna messa, nessuna orazione, niente. La chiesa è quasi totalmente immersa nell’oscurità. Solo due o tre delle candele che per l’appunto dovevano resistere fino a giorno mandano ancora dei bagliori tremolanti. Poi, il buio completo. Ed è precisamente nel momento in cui quel buio piomba sui presenti come qualcosa di irreversibile e di definitivo – anch’io c’ero, con la mia mano di bambino nella mano della nonna – che dalla feritoia a oriente sopra l’altare si mostra la prima luce.Sergio Givone