Toscana

Sanità toscana: Il problema? Non i soldi ma i comportamenti

di Simone Pitossi

E’ un medico di quelli che la medicina è importante ma la persona di più. È un medico che cura le malattie ma che ha cura soprattutto del malato. È un medico che ha speso tutta la vita nella corsia degli ospedali ma soprattutto vicino al letto dei pazienti con il suo modo di parlare pacato che rassicura e infonde fiducia. Stiamo parlando di Francesco Marchi, cardiologo, per anni primario dell’Unità di terapia intensiva cardiaca (Utic) dell’ospedale di S. Maria Nuova a Firenze. Ancora oggi, seppure in pensione, continua a visitare malati e collabora con il Cnr di Pisa sempre nel settore delle anomalie cardiache. Il suo osservatorio sulla sanità toscana e italiana è privilegiato. Per questo lo abbiamo intervistato per avere una panoramica sugli aspetti positivi e su quelli negativi. Per sapere dove sarebbe necessario intervenire per migliorare il «sistema» sanitario. «Al Sud – spiega Marchi – ci sono problemi enormi. Basti pensare che ogni anno dalle Regioni del Sud si trasferiscono al Nord un milione di persone per risolvere un qualche problema di salute. Rispetto al Sud la Toscana, come le regioni del Nord, è a un buon livello. L’affermazione è inconfutabile. Uno degli indici più impiegati a livello internazionale per valutare i sistemi sanitari è la mortalità infantile. In Toscana questa mortalità, calcolata sui nati vivi, è del 2 per mille: una delle più basse del mondo».

Ci sono eccellenze nel sistema toscano?

«Nel settore della cardiologia – quello che conosco meglio – la Regione ha sempre seguito con estrema attenzione la cardiochirurgia pediatrica di Massa, un centro di eccellenza unico in Europa. L’«Eacts» (European Agency for Cardiothoracic Surgery) ha esaminato l’attività di 100 centri cardiochirurgici pediatrici del nostro continente ove vengono operati circa 7.000 bambini ogni anno. Ebbene la Cardiochirurgia di Massa è quella che è risultata la migliore in termini di sicurezza (mortalità ad un mese dell’intervento 0.53% a fronte di una media europea del 3.93%). E non è che a Massa si effettuino interventi più a basso rischio che nelle altre cardiochirurgie europeee. A Massa oltre che dall’Italia giungono bambini da tutto il bacino mediterraneo. Dopo esser stati operati molti bambini, vengono accolti insieme alla loro mamma, per qualche settimana da famiglie della Versilia. E così, essendo vicini, possono essere controllati continuamente dall’Ospedale. Anche questo contribuisce al buon esito dell’intervento».

E per quanto riguarda gli adulti?

«Sempre nell’ambito della cardiochirurgia, la Regione oltre a disporre di quattro strutture pubbliche (Firenze, Pisa, Siena, Massa) ha attivato da molti anni una convenzione con Villa Maria Beatrice di Firenze ove opera il dottor Popoff, particolarmente esperto nel settore della rivascolarizzazopne coronarica. L’estrema efficienza che si percepisce entrando a Villa Maria Beatrice va sottolineata. Penso che da questa efficienza scaturisca anche un costo unitario per intervento minore che nelle altre cardiochirurgie. E di questo, in un periodo di ristrettezze economiche, si dovrebbe tener conto».

Ma in Toscana un problema c’è: quello delle liste di attesa…

«Certo, lunghissime liste di attesa. Ma si tratta di cattiva organizzazione o di eccesso di richieste non giustificate da vere necessità cliniche cioè scarsa appropriatezza? È più probabile la seconda ipotesi. Basti pensare alle migliaia di richieste di risonanza magnetica al ginocchio che esistono a Firenze. L’informazione che fornisce una risonanza può essere utile ad un ortopedico che deve operare ma non è di alcuna utilità per i moltissimi pazienti che per lenire i loro disturbi si avvalgono solo di un antinfiammatorio. E poi dove c’è appropriatezza non si hanno in genere lunghe liste di attesa. È il caso di Bolzano, dove in pratica non si hanno liste di attesa né per la diagnostica né per gli interventi. Ma lì l’attività medica non fa mai cose inutili: segue sempre l’appropriatezza. Un solo dato: su 100 parti, nella provincia di Bolzano i cesarei sono solo 19, nella Regione Campania 57. Eseguire più esami o più interventi non significa erogare una sanità migliore. L’assistenza ostetrica a Napoli non è migliore di quella di Bolzano».

E da dove deriva questa scarsa «appropriatezza», come la definisce lei?

«Una mancata appropriatezza deriva talora da mancanza di cultura, talora da un eccesso di medicina difensiva (paura dei medici di essere accusati di “malpractice” dai pazienti). E questo è un grosso problema che si è molto accentuato negli ultimi anni. Spesso è però alimentata anche da grandi interessi economici. Esemplificativo un fatto che ha avuto ripercussioni anche nella nostra Regione. Alcuni anni fa, partendo dalla constatazione che le donne prima della menopausa rischiano meno dell’uomo di andare incontro ad infarto o ad ictus, si ipotizzò che gli estrogeni potessero avere una azione protettiva su questi incidenti vascolari. Sulla base di questa ipotesi, si incominciò a somministrare estrogeni per via orale alle donne che entravano in menopausa. Con questa terapia sono state trattate in Italia 12 milioni di donne. Poi ci si è accorti che nelle pazienti trattate la frequenza del cancro al seno raddoppiava mentre la frequenza di ictus e di infarto era rimasta praticamente invariata. Si smise di somministrare estrogeni. Sarebbe giusto esprimere gratitudine a quei medici, che, resistendo alle “sirene mediatiche” (della industria farmaceutica), non sono caduti nella trappola. Le pressioni economiche nella sanità sono fortissime: se non si tiene presente questa realtà ogni momento mancheranno le risorse per le cose essenziali (ad esempio quote sanitarie per i non autosufficienti)».

Ma come sarà possibile contenere la spesa sanitaria, senza togliere a tutti le cure necessarie? Dovremmo rassegnarci alla logica che chi è ricco tutela la propria salute e chi non lo è si deve accontentare delle minori prestazioni pubbliche?

«Esiste un modo per rendere la spesa sanitaria sostenibile. In maniera molto brutale bisogna evitare che spesa sanitaria obbedisca al mercato o finisca preda del malaffare. I luoghi di cura funzionano bene e non sprecano quando consentono che si stabilisca tra medico-infermiere ed i pazienti una relazione fiduciaria stabile. Tornare alla fiducia, agli esami mirati, alle terapie collaudate: questo è l’unico criterio a sostegno di qualunque ragionamento di economia sanitaria».

Quali sono le altre questioni aperte della sanità toscana?

«Un altro problema è rappresentato dalla difficoltà di poter scegliere in ospedale l’equipe medica e soprattutto chirurgica da cui essere curato. Eppure scrive Ignazio Marino “qual’è quel paziente che, trovandosi a dover scegliere dove farsi operare, opterà per la struttura con il miglior direttore generale? Sceglierà l’ospedale dove c’è il reparto migliore per la sua malattia o quello in cui lavora un medico di cui si fida perché lo conosce o perché ne ha sentito parlare. I pazienti sperano di potersi fidare e l’atteggiamento del medico nell’instaurare un rapporto umano è decisivo. Se il medico perde questo perde sé stesso”. In realtà molti anni fa (anni ’60) chi si ricoverava in ospedale, anche per una emergenza, riempiendo un semplice modulo, poteva scegliere il reparto dove essere curato. Se vi era posto lo si accontentava. Se non era possibile lo si avviava ad un altro reparto, spiegandogli con gentilezza, l’impossibilità di venire incontro al suo desiderio».

È importante quindi la fiducia, soprattutto nella chirurgia. E per quanto riguarda il pronto soccorso?

«Verificare il gradimento dei pazienti soprattutto nei settori chirurgici è importante. Per i i reparti di medicina le scelte di primari su raccomandazione possono passare inosservate. In chirurgia meno: i pazienti si accorgono presto (e talora a proprie spese) se una equipe sa operare o no. Tra l’altro il tener conto delle richieste di ricovero potrebbe essere uno strumento che le amministrazioni potrebbero utilizzare  per potenziare o meno le varie strutture in rapporto alle esigenze dei pazienti, sfuggendo a pressioni di tipo lobbistico o politico. E poi sempre in tema di chirurgia (ove le criticità possono avere conseguenze più rilevanti per i pazienti ) a molti non sembra utile che nei Dea (Dipartimento emergenza e accettazione, ndr) i chirurghi siano stati sostituiti da medici che hanno fatto un corso di emergenza. Non è la stessa cosa».

Altri suggerimenti, possibilmente a costo zero, considerati i tempi?

«I medici che scelgono di dedicarsi a fare il medico di famiglia, dopo la laurea non frequentano più per un certo periodo gli ospedali come facevano fino ad alcuni anni fa. Perdono così una esperienza professionale importante ed inoltre non conoscono più personalmente, come accadeva alcuni anni fa, gli specialisti ed i chirurghi a cui affideranno i propri pazienti. E ciò è importante. Un esempio: medicare una piaga da decubito è un’attività che in genere viene snobbata da chirurghi di eccellenza. È un’attività al limite di quella infermieristica. Se il direttore di una equipe chirurgica affida ad un suo collaboratore il compito di medicare le piaghe da decubito all’interno della equipe ci si forma l’idea che il chirurgo destinato a questo incarico non sia un chirurgo di eccellenza. Se però quel medico viene raggiunto telefonicamente da un medico di famiglia che lo conosce personalmente e che gli espone il caso di un paziente con un decubito e gli ricorda quanto il suo intervento sia stato utile in pazienti che in precedenza avevano avuto un problema analogo il chirurgo accetta più volentieri di effettuare un intervento, umile sì, ma indispensabile per i pazienti. La differenza tra Bolzano e la Campania, non passa solo attraverso un diverso numero di cesarei, ma attraverso attenzioni e comportamenti molto diversi».

Allora forse non è la mancanza di risorse il  maggior problema della sanità…

«Si, non è un problema di soldi. È un problema soprattutto di comportamenti».