Toscana

Sempre più poveri

di Claudio Turrini

Nel Centro Italia sembra andare un po’ meglio che al Sud, ma sono sempre allarmanti. I dati sulla povertà diffusi dall’Istat non entrano nel dettaglio delle singole regioni. Ma la Toscana si è data da tempo una rete di rilevamento costituita da 120 Centri d’ascolto delle Caritas, collegate nella rete Mirod.

Il report completo sul 2011 è in corso di elaborazione e verrà presentato ad ottobre. Ma alcuni dati sono già disponibili. Lo scorso anno si sono presentati ai Centri d’ascolto 25.207 persone, con un aumento di 400 unità rispetto al 2010 e di mille sul 2009. Il 72,5% è composto da stranieri, ma gli italiani, che nel 2009 erano il 23,1% e nel 2010 il 25,5, sono adesso il 27,5%, con un evidente costante aumento. Cresce anche l’età media, che per gli italiani è di 49 anni (con un 15% di ultra 65enni), mentre per gli stranieri è di 39. Chiedono soprattutto un aiuto materiale per andare avanti (29,3%, in crescita rispetto al 2010), oltre che lavoro (22,3%), aiuto per sanità e igiene personale (10,4%) e sussidi economici (6,1%). «Quello che ci preoccupa di più – ci dice don Renzo Chesi, delegato regionale Caritas – non è tanto la crescita numerica, quando il fatto che la maggior parte delle persone torna più volte. Qualche situazione difficile è stata superata, attraverso ad esempio il microcredito, o il prestito della speranza. Ma per molti si tratta di un tipo di povertà che non riusciamo ad interrompere. Aumentano i pacchi alimentari, il vestiario… C’è il rischio di cadere nell’assistenzialismo, mettendo in secondo piano il lavoro di accompagnamento, di orientamento di promozione umana».

Cosa fare allora? Don Renzo mette in guardia dalla tentazione della «delega». «Si avverte sempre di più che sia le istituzioni che i Centri di ascolto non sono sufficienti a sradicare le povertà. Anche se venissero moltiplicati. Vanno pensate forme nuove, o anche vecchie, come la solidarietà familiare o di vicinato. E forse le parrocchie possono essere più vicine alle persone. Più che potenziare i Centri di ascolto diocesani si tratta di conoscer meglio le persone che accedono, per poterle poi accompagnare nelle loro famiglie nel loro territorio, cosa che non succede nelle grandi città, dove l’aggancio alla parrocchia è molto difficile. Se la situazione non è conosciuta, presa in carico, accompagnata dalla comunità parrocchiale non si riesce ad incidere veramente». Bisogna quindi «insistere molto sul piano educativo perché le piccole realtà e parrocchie, si accorgano di chi hanno accanto. Se non si lavora molto su questo aspetto, aumenteranno sempre di più i poveri e le situazioni rimarranno sempre più insolute. Il centro d’ascolto può rispondere a certe emergenze, può anche orientare, ma poi serve l’accompagnamento. Per questo bisogna rifondare le Caritas parrocchiali».

L’Istat ha messo in luce che a soffrire di più in questo momento è la famiglia. Un giudizio che don Chesi condivide in pieno. Anzi, a questo proposito, si augura che i Centri d’ascolto «imparino a tener conto della famiglia più che della singola persona, allargando l’ascolto ai familiari della persona che si presenta».

Lo scorso anno la Toscana ha vissuto l’emergenza profughi dalla Libia. Diocesi, associazioni di volontariato e le stesse Caritas si sono mobilitate, assieme a tante realtà laiche. Come si sta evolvendo la situazione? «Siamo delusi», confessa don Chesi. «Il 31 dicembre termineranno le convenzioni, e da quella data non sono più protetti da nessuno. Chi in questo anno non ha trovato una soluzione o non ha avuto inserimenti lavorativi, rimane, accolto ancora dalle nostre strutture, ma senza garanzie giuridiche e tantomeno assicurative. Purtroppo le richieste che avevamo fatto al governo non sono state ascoltate».

La ricerca: Ecco chi è più a rischioL’11,1% delle famiglie italiane è «relativamente» povera, per un totale di 8 milioni 173 mila persone. La soglia di povertà per una famiglia di due componenti è fissata convenzionalmente a 1.011 euro di spesa mensile per consumi. All’interno di questa quota sono 3 milioni 415 mila le persone povere in termini assoluti, quelli cioè che non riescono a sostenere una spesa mensile minima necessaria per acquisire i beni e servizi essenziali a uno standard di vita minimamente accettabile. Sono questi i dati principali dell’indagine Istat «La povertà in Italia nel 2011» diffusa nei giorni scorsi. La mancanza di lavoro o la bassa qualificazione professionale contribuiscono a determinare situazioni di povertà assoluta: aumenta infatti dal 4,7% del 2010 al 5,4% del 2011 la povertà nelle famiglie con persona di riferimento ritirata dal lavoro. Per il capofamiglia con basso profilo professionale, ad esempio operaio, si passa dal 6,4 al 7,5%. Le famiglie più numerose, con tre o più figli, basso livello d’istruzione e basso profilo professionale ed esclusione dal mercato del lavoro sono quelle che sperimentano maggiormente una situazione di povertà, si tratta di famiglie che vivono nel Mezzogiorno d’Italia dove la media è decisamente più alta.

Le situazioni più gravi sono quelle della Sicilia e della Calabria, dove oltre una famiglia su quattro tra quelle residenti sperimenta situazioni di povertà relativa (rispettivamente il 27,3% e il 26,2%); le percentuali continuano a salire (50,6%) se i figli minori sono tre o più di tre. A rischio povertà anche le famiglie con due o più anziani (14,3%), anche se il fenomeno è più evidente nel Nord. Sono a rischio anche le famiglie monogenitore (7,8%); mentre sono più al sicuro i single e le coppie senza figli, che registrano rispettivamente un’incidenza di povertà dell’1,2% e del 2%. Fondamentale anche il livello d’istruzione del capofamiglia per determinare l’incidenza di povertà della famiglia: si attesta al 18% quando il capofamiglia è senza titolo di studio o con licenza elementare, quasi quattro volte superiore a quella per le famiglie con a capo una persona che abbia almeno la licenza superiore (5%). La situazione è grave anche per le famiglie con capofamiglia che ha difficoltà a trovare un’occupazione (27,8% delle famiglie) e vivono al Sud (50,7%) o per le famiglie senza occupati (38,2%). In quest’ultimo caso rientrano principalmente le coppie con figli adulti e le famiglie con membri aggregati, dove la pensione rappresenta l’unica fonte di reddito familiare.