Toscana

Tfr, lavoratori perplessi sui «fondi pensione»

di Claudio Turrini

La previdenza complementare non incanta. A pochi giorni dalla scadenza del 30 giugno sono ancora poche le adesioni ai «fondi pensione». Da un’indagine del «Corriere della Sera» ai primi di giugno arrivavano a malapena al 9%. Siamo perciò ancora ben lontani dall’obiettivo del 40% che il governo si proponeva. È vero che gli italiani sono abituati a decidere all’ultimo momento e che finora è mancata un’informazione adeguata, ma basta ascoltare i discorsi della gente per capire quanta diffidenza ci sia verso queste novità. Ma proprio la scarsa informazione potrebbe rivelarsi un’arma per il governo. Con il «silenzio-assenso», infatti, se un lavoratore non fa la sua scelta entro il 30 giugno, e non si ricorda di rinnovarla ogni anno, il suo Tfr andrà per sempre alla previdenza integrativa. Così alla fine l’obiettivo del 40% potrebbe essere sfiorato o raggiunto grazie a tanti «arruolati» inconsapevoli, impossibilitati a tornare indietro. Peggio che nelle televendite, dove almeno abbiamo il diritto di recesso entro 10 giorni.

La scelta – ricordiamolo – riguarda 11 milioni di lavoratori, che dovranno decidere se continuare ad accumulare il Tfr, pari a circa il 6,9% della retribuzione annua (complessivamente 19 miliardi di euro ogni anno), in modo da riceverlo sotto forma di «liquidazione» al momento di cambiare lavoro o di andare in pensione, oppure se destinarlo a dei «fondi», «chiusi» o «aperti» che siano o ad altre forme di previdenza complementare (i «Pip», Piani previdenziali individuali), che dovrebbero garantire, al raggiungimento dell’età pensionabile, una rendita da affiancare alla pensione. Solo metà di quanto accantonato potrà essere anche ottenuto come una sorta di «liquidazione», ovviamente riducendo però di molto la rendita annua. Analogamente a quanto avviene per il Tfr, sono anche previste delle anticipazioni per spese sanitarie o per altre esigenze come la ristrutturazione o l’acquisto di una prima casa.

Ma da cosa nasce questa esigenza di riforma? Fondamentalmente da tre cose. L’aspettativa di vita degli italiani cresce ad una media di 6 mesi ogni anno. Già adesso viviamo mediamente 8 anni di più di quanto avveniva nel 1970. È evidente che la spesa pensionistica, a parità di cifre erogate, è destinata ad aumentare a dismisura. Il secondo elemento è la denatalità. L’Italia è il paese più vecchio al mondo, dove il rapporto tra popolazione attiva (i lavoratori) e quella pensionata è tra i più bassi. Questo comporta un ulteriore squilibrio nella spesa, perché aumentano di anno in anno quanti riscuotono mentre diminuiscono quelli che versano contributi. Ma è il terzo elemento quello decisivo: l’Ue ci impone di contenere la spesa previdenziale entro una certa quota del Pil, il prodotto interno lordo e quindi non possiamo pensare di aumentarla quanto necessario per coprire l’aumento dei pensionati e della loro vita media. Anche perché già adesso è ai livelli più alti nel mondo. Da qui l’esigenza di affiancare alla pensione dell’Inps, garantita dalle casse statali, anche una forma integrativa. Le due cifre messe insieme dovrebbero così garantirci una vecchiaia serena, senza pesare troppo sui conti pubblici.

Le buone intenzioni della riforma Maroni, anticipata di sei mesi dal governo Prodi, si scontrano però con i molti dubbi dei lavoratori. Dubbi, lo diciamo subito, più che legittimi. E condivisi anche all’interno del governo. E non solo dal ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero (di Rifondazione), che apertamente invita i lavoratori a mantenere il Tfr. Ma anche dal «riformista» Giuliano Amato che chiede al suo governo di apportare correttivi. Perché, ad esempio, aver reso irrevocabile la scelta per i «fondi»? In un’epoca in cui niente è «per sempre» – e soprattutto il lavoro – giustamente c’è di che preoccuparsi. Se perdo l’impiego – ad esempio – perché non poter usufruire della liquidazione in attesa di trovarne uno nuovo? Ma c’è di più. Il Tfr, così com’è adesso (la riforma è del 1982) è un capitale «blindato». Non solo viene rivalutato ogni anno dell’1,5% fisso, più il 75% dell’inflazione, ma anche in caso di fallimento dell’azienda viene garantito dall’Inps. I «fondi pensione» e le altre forme di previdenza integrativa, invece, non li garantisce nessuno. Né nel rendimento, che può essere anche molto superiore a quello del Tfr (negli ultimi quattro anni il Tfr si è rivalutato del 10,8% contro il 23,4% dei «fondi chiusi»), ma anche molto inferiore (dipende dall’andamento dei mercati), né nella sua effettiva disponibilità, anche senza voler evocare i crac dei bond argentini o della Parmalat. Per chi poi è vicino alla pensione non dovrebbero esserci neanche dubbi: destinare per cinque o sei anni il proprio Tfr alla previdenza integrativa non servirebbe a nulla.

Poi ci sono i dubbi delle imprese. Il Tfr dei lavoratori è servito finora come una sorta di auto-finanziamento, una sorta di «tesoretto» al quale attingere in caso di necessità, senza essere costretti a pagare interessi esosi. Quelle con più di 50 dipendenti se lo vedranno scippare in ogni caso, perché andrà in un apposito fondo dell’Inps. Per le altre, invece, tutto continuerà come prima… ma solo a patto che i dipendenti non optino per la previdenza integrativa. Anche perché, in caso contrario, l’azienda è tenuta a versare l’1,2% sul «fondo» del dipendente. È uno dei pochi incentivi – oltre quelli fiscali (deducibilità fino a 5.164,57 euro e tassazione decrescente della rendita a seconda degli anni di contribuzione, dal 15 fino al 9%) messi in campo dal governo per spingere i lavoratori verso la previdenza integrativa. Difficile che da soli facciano propendere per i «fondi». Tranne forse che nelle grandi aziende e dove sono presenti da tempo «fondi» di categoria, già ben avviati. Per il resto, la scelta più saggia sembra essere quella di mantenere il proprio Tfr. Almeno in attesa di un quadro più chiaro.

TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO(TFR) – Somma corrisposta al lavoratore dipendente al termine del rapporto di lavoro, calcolata sommando annualmente il 6,91 % della retribuzione lorda, rivalutata, al 31 dicembre di ogni anno, dell’1,5% in misura fissa e del 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo Istat. Al momento della liquidazione, il TFR è tassato con l’aliquota IRPEF media del lavoratore nell’anno in cui è percepito. Per gli anni di lavoro dopo il 1° gennaio 2001, viene applicata l’aliquota media degli ultimi 5 anni.

FONDO PENSIONE NEGOZIALE (O CHIUSO): Forma pensionistica complementare istituita sulla base di contratti o accordi collettivi o di regolamenti aziendali. Vi può aderire chi fa parte di un determinato comparto, impresa o gruppo di imprese.

FONDO PENSIONE APERTO– Forma pensionistica complementare istituita da banche, società di intermediazione mobiliare, compagnie di assicurazione e di gestione del risparmio. Viene realizzato mediante la costituzione di un patrimonio separato e autonomo all’interno della società istitutrice finalizzato esclusivamente all’erogazione di prestazioni previdenziali.

PIP – I Piani individuali previdenziali sono fondi ad adesione esclusivamente personale, gestiti da assicurazioni. Questo comporta che su questo fondo il soggetto aderente può decidere di versare la quota di reddito che preferisce e per i lavoratori è prevista la possibilità di versare ad esso anche le quote relative all’accantonamento annuale del TFR. Vi può aderire anche chi non è un lavoratore dipendente.

PRESTAZIONI DEI FONDI – Con un periodo inferiore ai 5 anni: il lavoratore è obbligato al riscatto, ma non matura il diritto all’assegno vitalizio. Con iscrizione tra i 5 e i 15 anni: assegno vitalizio, proporzionato al tfr accantonato. Si può anche decidere se riscattare una quota dell’accantonato (fino al 50%) ma in questo caso se con l’altra non si raggiunge almeno la cifra dell’assegno sociale (pari a € 430 ca.), si può riscattare tutto. Chi rimane iscritto oltre 15 anni è obbligato a lasciare almeno il 50% dell’accantonato nella previdenza complementare; questa parte darà diritto ad un assegno vitalizio.

I dubbi del prof. Beppe Scienza

Se avete dei dubbi sul Tfr, o meglio ancora … se non li avete, guardatevi in internet il video di Beppe Scienza, docente di Metodi e modelli per la pianificazione economica all’Università di Torino o leggetevi il suo libro «La pensione tradita. Conti alla mano perché conviene tenersi il Tfr e non aderire ai fondi pensione», (Fazi Editore 2007, pp. 234, e. 9.90).

Lo speciale del governo sulla riforma del Tfr