Toscana

Ultras, un nemico comune: il poliziotto

di Andrea Bernardini

Tutte le tifoserie hanno amici e nemici e, in diversi casi, la simpatia o l’antipatia è determinata dal credo politico: per esemplificare i tifosi labronici, per lo più a sinistra, mal sopportano gli ultras laziali, per lo più a destra. Ma sia livornesi che laziali (e non solo loro) hanno un comune «nemico»: le forze dell’ordine. È l’opinione di Massimo Ampola, 60 anni, sociologo livornese d’adozione e pisano per professione (insegna all’ombra della torre pendente) che ha coordinato, primo in Italia, una indagine sociologica sulla «curva livornese». Un’indagine compiuta nel 1996 e nel 2000 grazie anche alla collaborazione degli stessi ultrà e di due ispettori di polizia.

Professor Ampola, ci può fare l’identikit del giovane ultrà?

«Il giovane ultrà è un giovane fragile come molti dei suoi coetanei. Nel gruppo organizzato di tifosi, quel giovane trova una dimensione: preparare gli striscioni durante la settimana, l’atteggiamento da assumere nei confronti della propria squadra e di quella altrui, le parole d’ordine da urlare la domenica; gli dà ordine e significato, ritma la sua esistenza. Il problema sorge quando la passione sportiva finisce per essere valvola di sfogo a disagi. E allora, se non si interviene per tempo, quell’esperienza costruisce disadattamento».

Come giudica la linea Pisanu, inasprita dall’attuale governo?

«Non è sufficiente. È impensabile che solo il rigore punitivo possa risolvere il problema. Non sono nemmeno sicuro che una strategia repressiva nel rapporto tra agenti e tifosi favorisca l’ordine pubblico: prima della Pisanu tra poliziotti e ultras si stabilivano un codice di comportamento, delle regole non scritte all’interno delle quali ciascuno poteva muoversi… e così facendo il 60-70% degli eventi negativi era scongiurato».

Perché le forze dell’ordine sono il nemico comune di tutte le tifoserie?

«Perché rappresentano il filtro con la realtà, la “società delle regole”. In un tempo in cui alcuni – per ragioni economiche, politiche o di potere personale – possono permettersi tutto, per i disgraziati la partita della domenica è uno dei pochi luoghi dove possono (o vorrebbero) permettersi l’impunità. Del resto, la “società delle regole” fa fatica ad essere accettata dai giovani e soprattutto dagli ultras: nella indagine sociologica realizzata nel 2000, ogni 100 ultrà 64 ritenevano ammissibile viaggiare sui trasporti pubblici senza pagare, 72 fumare occasionalmente spinelli, 78 ubriacarsi, 46 fare a botte per far valere le proprie ragioni, 37 suicidarsi, 49 ricorrere all’eutanasia, 37 dichiarare al fisco meno di quanto si guadagna, 19 prendere droghe, 22 prendere qualcosa in un negozio senza pagare e 16 produrre danni a beni pubblici. E qui per disgraziati non intendo solo gli ultras duri e puri. Tra i tifosi livornesi recentemente condannati trovi padri di famiglia, delle bravissime persone, che, trovatesi in mezzo ad uno scontro, hanno cominciato a menar forte. Ho un amico, un ex finanziere, marito e padre, uno a cui affideresti le chiavi di casa tua, che si è trovato in una situazione di questo tipo, dando contro suoi ex colleghi. “Perché?”, gli ho chiesto candidamente. “È scattata in me una pazzia, una sorta di rivalsa psicologica” mi ha risposto».

I giovani ultras sono specchio della società…

«Quando ero giovane io, se uno della classe osava dare uno schiaffo ad un disabile, gli altri lo picchiavano a turno; oggi passa nell’indifferenza, se anzi non è aiutato nella bravata. Le giovani ragazze amano “esibirsi” e abbandonarsi ad “effusioni” in gruppo. La “deviazione” ha raggiunto tutti i livelli della comunità civile: il manovale che dà una mano alla polizia a cercare il bambino quando invece l’ha ucciso lui, i furbetti del quartierino, il deputato che sniffa o passa con la macchina in zona vietata a Roma».

E allora, che fare per combattere la violenza fuori e dentro gli stadi?

«Tre interventi: formazione in loco, norme varate in sede nazionale e certezza e rispetto delle regole in campo. Se si interviene solo con uno di questi passaggi, meglio non far niente».

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