Vita Chiesa

50° alluvione Firenze, card. Betori: allora morti e devastazioni, ma anche una generosità commovente

Fare memoria «della devastazione che Firenze subì a causa della piena dell’Arno cinquant’anni fa» porta a pensare innanzitutto «alle vittime: trentacinque secondo gli elenchi ufficiali, probabilmente anche più»; poi alle «gravi sofferenze di tanti, di tutti i fiorentini in quei giorni: patimenti materiali e morali, privazioni e angosce, perdita di beni e soprattutto di memorie di una vita, per non pochi il successivo sradicamento dai luoghi familiari. Alla sofferenza delle persone va aggiunta quella della città, le ferite inferte al suo volto, alla sua bellezza, la consapevolezza di una precarietà che da allora ci accompagna». «Ma in quei giorni si manifestarono anche fatti di segno positivo». Così l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, ha fatto memoria dell’alluvione che travolse la città nell’omelia della Celebrazione eucaristica, oggi nella basilica di Santa Croce. Insieme a lui hanno concelebrato il card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città di Castello, mons. Luciano Monari, vescovo di Brescia, e mons. Diego Coletti (vescovo emerito di Como) oltre a molti vescovi toscani: mons. Stefano Manetti (Montepulciano-Chiusi-Pienza), mons. Mario Meini (Fiesole), mons. Italo Castellani (Lucca), mons. Franco Agostinelli (Prato), mons. Carlo Ciattini (Massa Marittima-Piombino), mons. Alberto Silvani (Volterra), mons. Antonio Buoncristiani (Siena-Colle Val d’Elsa-Montalcino), mons. Riccardo Fontana (Arezzo-Cortona-Sansepolcro), mons. Andrea Migliavacca (San Miniato) e mons. Simone Giusti (Livorno). Ringraziandoli per la loro presenza il card. Betori ha sottolineato come alcuni (Coletti, Bassetti – a quei tempi a Firenze -, Monari e Castellani) siano tornati «a Firenze ricordando che in quei giorni vennero anch’essi a portare aiuto a questa città, “angeli del fango”, come si usa dire, un’espressione che dice la meraviglia con cui i fiorentini videro giungere giovani d’ogni dove, d’Italia e dall’estero, in loro soccorso. Anch’io – ha confessato – fui tra quei giovani, e sapete quanto sia fiero di essere ora pastore di una città dove la prima volta che vi entrai non lo feci stringendo un pastorale con cui segnare un cammino di fede, ma impugnando un badile con cui liberare dal fango le case della gente. Sono felice che le mie mani, quelle mani che ungono con il Crisma la fronte dei nostri ragazzi e il palmo dei nostri preti, siano state impregnate in quei giorni della terra e dell’acqua raccolte dalle case del nostro popolo».

Betori ha sottolineato «la fierezza e la dignità dei fiorentini, la loro volontà di non darla vinta alle acque limacciose, il coraggio di affrontare il futuro per difendere l’identità di questa città. Poi l’accorrere di tanti uomini e donne in nostro aiuto, soprattutto di giovani, che mostrarono una generosità commovente, ma anche la consapevolezza che perdere Firenze e i suoi tesori, di umanità e di arte, sarebbe stata una rovina irreparabile per l’umanità tutta».

Poi un pensiero – da tragedia a tragedia – è andato ai terremotati dell’Italia Centrale: «Questi nostri fratelli – ha detto – ci sentano vicini – lo sono in particolare io, nato in Umbria – e sappiano che possono contare sulla presenza operosa dei nostri volontari». «Il Paese tutto – ha aggiunto Betori – si senta impegnato a far rinascere quei luoghi con il volto che li ha connotati nei secoli».

Firenze, ha ricordato ancora l’Arcivescovo nella sua omelia, «non solo si è liberata dalle ferite dell’alluvione, e ancora oggi continua a ricostruire il proprio patrimonio di bellezza, ma vuole procedere ancora sul cammino della sua vocazione storica».  «Uscire dall’alluvione – ha aggiunto – significa oggi guardare con coraggio a una rinnovata missione umanistica, con il rigore della denuncia e l’ardire della novità», «in questo tornante della storia che – citando il poeta toscano Mario Luzi – si affaccia su un orizzonte di incommensurabili pericoli e di inestimabili promesse che concernono la nuda creatura umana». «‘Tra inquietudine e speranza’ – ha concluso Betori -, volgiamo lo sguardo al nostro futuro e assumiamo le nostre responsabilità di riedificazione dell’umano che è in noi e tra noi, a immagine di Cristo, il Dio fatto uomo, che compì se stesso nel dono supremo e che, qui effigiato da Cimabue, deturpato dall’alluvione, rinato da mani sapienti, porta ancora i segni delle sue ferite, ma non cessa di proporsi come la nostra pienezza, ricordandoci che si è uomini se lo si segue, nel dono di sé e nello sguardo che si consegna alla risurrezione, si innalza verso un destino eterno».