Vita Chiesa

A scuola di preghiera/3: le parole

La Quaresima è l’occasione per intensificare il nostro tempo dedicato alla preghiera, e per imparare a pregare meglio. Nelle settimane di Quaresima Toscanaoggi propone una «scuola di preghiera»: in questo numero suor Maria Francesca, monaca trappista del monastero di Valserena (diocesi di Volterra) ci parla delle parole della preghiera.Nelle puntate precedenti don Stefano Manetti ha spiegato perché pregare, don Piero Ciardella ha parlato dei gesti della preghiera.di Suor Maria Francesca Righi Monastero di ValserenaLa liturgia invita a riprendere, in questo tempo di Quaresima, con maggior cura e perseveranza l’esperienza della preghiera, così da entrare in una vera preghiera cristiana, nella preghiera dei figli, che nel Figlio, per mezzo dell’unico Spirito, si rivolgono all’unico Padre.Parlando di esperienza di preghiera mi riferisco all’esperienza della comunità monastica contemplativa cui appartengo; compito privilegiato dei monaci e delle monache è proprio di essere nel mondo un luogo offerto a ogni persona per rendere più facile e più immediato l’ingresso nella preghiera, nel rapporto con il Padre. Questo è il senso della celebrazione liturgica pubblica, l’Opus Dei, l’Opera di Dio che la Regola di san Benedetto ci consegna come l’opera alla quale niente va anteposto. La vita della comunità monastica è scuola di carità e scuola di preghiera. Dio parla a noi nel VerboCon quali parole pregare? che cosa e come dire a Dio?La prima cosa da fare è aprirsi alla parola che il Padre stesso ci indirizza per mezzo del suo Cristo, del suo Verbo. Come dice la lettera agli Ebrei: «Dio, che aveva gia parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).

Il Figlio è la Parola definitiva che il Padre ci ha rivolto e pregare significa attingere ed entrare in modo misterioso nella preghiera che il Figlio rivolge al Padre, imparare da Lui a chiamare Dio con il nome di Padre. La liturgia quaresimale ci suggerisce anche di non moltiplicare le parole, ma di entrare nella propria stanza e pregare nel segreto. Dice un autore monastico del XII secolo: «…ti renderai conto con quale difficoltà talora entri nella cameretta del tuo cuore per trovarvi una spelonca, dove seppellirti, in certo modo, lungi da tutte le cose del mondo e pregare il Padre tuo nel segreto. Sembra talvolta che il cuore si sia indurito come un macigno. Si direbbe che una montagna si sia parata dinanzi, impedendo ogni sguardo interiore sulle cose spirituali; finché non arriva il vento forte e gagliardo che spiana i monti e spezza le pietre davanti al Signore». (Elredo di Rielvaux, «Gesù a dodici anni», Morcelliana).

Con quali parole pregare quando molto spesso ci troviamo disorientati o confusi, con il cuore indurito come un macigno?

Noi parliamo a Dio con la Sua ParolaIn fondo è semplice: dal momento che noi «nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8, 26) la Chiesa, nostra madre, ci pone sulle labbra le parole giuste.Dio si rivela a noi con parole umane e quelle stesse parole ce le dona perché possiamo accedere al suo Mistero. La parola di Dio, divinamente ispirata, usa le parole umane che sono quelle del nostro linguaggio abituale; il Verbo – Parola del Padre, si comunica all’esperienza dell’uomo attraverso le immagini di esperienze umane a noi facilmente comprensibili.

C’è un parallelismo tra lo Spirito nascosto nella lettera e il Verbo celato nella nostra carne, un parallelismo che è anche una pedagogia perché per la stessa via per la quale l’esperienza di Dio si fa raggiungibile dall’uomo, l’uomo può camminare per giungere a Dio.

«Quanto a noi, camminando con cautela e semplicità nell’esposizione del sacro e mistico eloquio, seguiamo l’usanza della Scrittura che espone con parole nostre la sapienza nascosta nel mistero; fa entrare nei nostri affetti Dio, mentre ce lo rappresenta con figure; e insinua nelle umane menti gli attributi sconosciuti e invisibili di Dio, che sono cose preziose, con similitudini note di cose sensibili, e di vile materia». (Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici)

La sapienza di Dio usa le semplici parole umane come «contenitori» della rivelazione della sua Vita e del suo disegno di salvezza. Sono le stesse parole e immagini che noi possiamo usare con maggior frutto per aprire a Dio la nostra umana esperienza e lasciare che sia raggiunta e trasformata dalla sua Verità.

«È vera dunque l’una e l’altra cosa, che la voce è nostra e non è nostra; che è la voce dello Spirito di Dio, e che non lo è. È la voce dello Spirito di Dio perché noi non potremmo dire queste parole senza la sua ispirazione; non lo è, d’altra parte, perché Egli non conosce né miseria né sofferenza. Ora queste sono parole dei miseri e dei sofferenti: sono quindi nostre, perché sono parole che esprimono la nostra miseria; e del pari non sono nostre perché è per dono dello Spirito che noi meritiamo anche di gemere». (Agostino, Esposizioni sui salmi)La Chiesa ci pone sulle labbra le parole dei salmi. Queste sono la chiave per entrare dalla porta principale nell’intera raccolta di libri biblici; sono il condensato, sotto forma di preghiera, delle narrazioni storiche, delle parabole sapienziali, degli annunci profetici, delle intuizioni apocalittiche. Anche Gesù ha pregato cosìSulla croce il Signore esprime con le parole di un salmo la sua ultima angoscia «Mio Dio, Mio Dio perché mi hai abbandonato», (Salmo 21) così chi prega può trasfigurare in preghiera anche l’abisso delle più profonde lontananze; con un’altra parola tratta da un salmo consegna lo Spirito al Padre «Mi affido alle tue mani, Tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Salmo 30), così ci insegna il movimento dell’offerta e della consegna di sé; e risorgendo «rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce, come di un manto» (Salmo 104) restituisce all’uomo l’esperienza della gioia e della benedizione di Dio.

Chi prega con i salmi usa una preghiera che è di un singolo, ma anche di un popolo, e la sua personale esperienza di dolore o di gioia, di speranza o di timore, trova il compimento pieno nella Gerusalemme dove Dio abita, nella Chiesa, figura della Gerusalemme eterna che attende di esser raggiunta alla fine del pellegrinaggio terreno: «Quanto sono amabili le tue dimore, signore degli eserciti!» (Salmo 83) La casa di Dio è il luogo dove l’uomo ritrova la sua origine, e i salmi non sono altro che la preghiera del ritorno alla casa del Padre.

Prima di insegnare ai suoi discepoli a pregare «Quando pregate dite: Padre» (Lc 11,2) Gesù ha imparato lui stesso a pregare con i salmi, così come sua Madre, Maria di Nazareth; sono le preghiere del popolo di Israele che i nostri padri hanno ricevuto da Mosè e dai profeti, e che usati nel lungo cammino di schiavitù e di liberazione, di terra promessa e di esilio sono diventati anche per il popolo cristiano il canto del cammino, il pane del deserto.

Gioia, dolore: ogni realtàumana trova espressioneSe prendiamo in mano attentamente il libro dei salmi, e lo leggiamo senza pregiudizi, ma con il cuore aperto, ci accorgiamo che non c’è situazione umana, nelle molteplici gradazioni della gioia e del dolore, che non sia da questi canti di fede illuminata e posta davanti a Dio.

«O Dio, vieni a salvarmi» (salmo 69): ogni Ora dell’Ufficio Divino inizia con questo che è il versetto di un salmo. Gli antichi monaci dicevano che questa era la forma della preghiera per eccellenza. In quante situazioni non sappiamo cosa fare, come scegliere, che posizione prendere… O Dio, vieni a salvarmi, donami il senso profondo di tutta la mia vita così che ogni scelta ne sia illuminata.

I salmi sono una vera miniera di espressioni di preghiera semplici e adatte ad ogni circostanza. Sono nella gioia perché la felicità mi arride, perché le cose vanno bene, «O Dio, mio Re, voglio esaltarti» (Salmo 144); sono in quella acutezza di commozione emotiva, di vibrazione profonda che nasce da un incontro, da un avvenimento che tocca le corde più profonde della mia esistenza «Effonde il mio cuore liete parole, io canto al Re il mio poema» (Salmo 44).

I salmi sono canti da eseguirsi con accompagnamento di strumenti musicali, e sono nati per essere cantati da un popolo: «Non c’è strumento che possa meglio affinare il cuore umano – il cuore umano come parte di un popolo, perciò di una comunione – più del canto. Non c’è niente che dia gloria a Cristo più del canto». (Luigi Giussani, «Tutta la terra desidera il tuo volto»).

Sto godendo lo spettacolo sereno di un bel tramonto o sono già sveglia in una di quelle albe trasparenti come madreperla, e godo della luce del sole che accarezza le cime degli alberi, o gioca dietro le nubi lasciandole bordate di oro? «Benedici il Signore, anima mia, Signore mio Dio, quanto sei grande, rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce, come di un manto!» (Salmo 103)

Certo, non è sempre immediato e consapevole fare il passaggio dalle creature nella loro bellezza, alla Persona misteriosa del Creatore che in esse rivela qualcosa di sé, proprio per questo la parola del salmo non solo aiuta ad esprimere un’ esperienza umana di gioia autentica, ma educa questa gioia facendola diventare consapevole atto di fede nel Creatore e lode a Lui, suprema Bellezza e Bontà.

Ci sono poi situazioni in cui l’angoscia sembra prendere il sopravvento, in cui l’orizzonte è nero, non respiriamo nella speranza, ma siamo come sotto un’incombente minaccia: «Perché Signore stai lontano? Nel tempo dell’angoscia ti nascondi?» (Salmo 9) Posso così, con l’aiuto della parola ispirata, esprimere la fatica, dire l’angoscia della lontananza dal Signore e pregarlo invocandolo. Posso esprimere situazioni difficili, persecuzione, ingiustizia, con una parola che aiuta anche a uscire dalla difficoltà, con un atto di fede: «A Te si abbandona il misero,…tu accogli, Signore il desiderio dei miseri». (Salmo 9).

Posso fare l’esperienza dell’errore, per fragilità o per colpa morale; il giusto, dice il salmo, «Se cade non rimane a terra, perché il Signore lo tiene per mano» (Salmo 36, 95), ma posso anche nella preghiera assumere la responsabilità delle mie azioni e chiederne perdono: «Riconosco la mia colpa» (Salmo 51), e così trovo «Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato» (Salmo 31).

Oppure ci sono le situazioni estreme del dolore, la malattia e la morte «Sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio» (Salmo 6) L’uomo antico non ha vergogna dei propri sentimenti, a differenza dell’uomo moderno che non ne conosce più il valore. Come la lode e l’esultanza così il pianto e la supplica hanno il loro posto nell’economia della redenzione, in unione a Cristo che ha assunto l’esperienza umana di dolore e l’ha trasfigurata nella gioia della risurrezione «Hai mutato il mio lamento in danza, le mie vesti di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa, Signore mio Dio ti loderò per sempre». (Salmo 30).