Vita Chiesa

BELLANDI: La grande semplicità del grande teologo

di Andrea Bellandi preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale

Quando, verso la fine degli anni 80, l’allora professore di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana, Rino Fisichella – oggi Rettore della Università Teologica Lateranense – mi propose di svolgere la mia tesi di dottorato sul pensiero del card. Ratzinger, non potevo immaginare che avrei intrapreso un lavoro di ricerca su colui che martedì scorso è salito al soglio pontificio col nome di Benedetto XVI. Certamente già allora la figura del cardinale era ben conosciuta e stimata, ricoprendo egli da alcuni anni la carica di Prefetto della Congregazione della Fede e tuttavia la sua funzione di «custode dell’ortodossia» – come si suole chiamare, talvolta in toni implicitamente un po’ sospettosi – ed il suo profilo di studioso non lasciava intravedere la possibilità che un giorno il suo nome sarebbe riecheggiato a completamento della tradizionale formula, nuovamente riascoltata con emozione in San Pietro, Habemus Papam!

Il lavoro di tesi assegnatomi riguardava particolarmente la nozione di fede ed il suo nesso con la ragione, così come si poteva evincere dalla già vasta produzione teologica di Ratzinger, per anni – com’è noto – stimato docente di teologia prima a Bonn, poi a Münster, quindi a Tubinga e infine a Ratisbona. Il titolo richiamava un’affermazione basilare del teologo tedesco, contenuta nella sua opera più conosciuta, Introduzione al cristianesimo, testo la cui lettura – per ironia del Destino – aveva accompagnato anni prima il mio ingresso nel Seminario di Firenze: «Fede come “stare e comprendere”». Ciò intendeva sottolineare come ogni possibilità di riflessione «ragionevole» sul contenuto della fede (il verstehen, detto in lingua tedesca), richiedesse quale suo luogo imprescindibile – pena il rischio di vederla ben presto tramutata in una dottrina da intellettuali, manipolabile a piacimento – lo «stare» nella fede (stehen), inteso non solo come adesione personale e interiore al Vangelo, bensì anche come immanenza a quella comunità sacramentale che del Vangelo cotituisce non semplicemente la «memoria» ma la sua ripresentazione viva e attuale nella storia. Detto in breve, solo appartenendo alla Chiesa qui e ora si può essere introdotti alla conoscenza adeguata e ragionevolmente fondata del contenuto della fede. Questa tesi mi affascinò allora e vi ritrovo ancora oggi le linee guida del pensiero ratzingeriano, dove un grande amore a Cristo e alla sua umanità va di pari passo con un altrettanto grande spirito di obbedienza e di servizio alla Chiesa. È questa unità che traspare in ogni intervento del neo-eletto Pontefice ed è a partire da questa unità che si comprendono anche le diverse prese di posizioni critiche ogniqualvolta si tende a ridurre la fede a un «pensiero», magari à la page, e la Chiesa ad un semplice apparato burocratico, che della prima è considerata essere un’inutile complicazione. A mio modo di vedere è questa unità che egli ha amato innanzitutto nel pontificato del suo predecessore – come l’omelia commossa ai suoi funerali ha lasciato ben intravedere – ed è sempre questa unità che egli ha colto come fattore di reale rinnovamento nella Chiesa nell’esperienza di tanti movimenti ecclesiali, sorti nell’immediato pre e post-concilio.

Un altro aspetto che mi ha sempre affascinato in quest’uomo è stato ed è la semplicità; sembrerebbe un paradosso, abituati come siamo a subire acriticamente le chiavi di lettura proposteci dai grandi mezzi di comunicazione, che hanno spesso presentato il card. Ratzinger come uno ieratico «defensor fidei», arroccato nelle segrete stanze vaticane. Invece la semplicità è una delle caratteristiche che più emergono dalla personalità del porporato bavarese. Fu questo aspetto a colpirmi favorevolmente le volte che ebbi l’occasione di incontrarlo, durante il mio lavoro di tesi. A me, giovane prete e studente di teologia, seppe dedicare con disponibilità e cordialità alcune ore del suo tempo, in conversazioni dal tono familiare e informale, lasciando nella sala d’attesa personaggi ben più ragguardevoli del sottoscritto. È da questa semplicità a livello di vita personale che si può comprendere – a mio modesto avviso – anche la volontà di ricondurre il contenuto della fede ai suoi elementi essenziali, quelli per cui ancora oggi l’annuncio di Gesù Cristo può essere oggetto di interesse reale per la vita dell’uomo, liberato da complicati distinguo intellettuali che ne fanno materia adatta solo agli specialisti del settore: «difensore della fede», ma della fede dei semplici! È sempre in nome della semplicità che Ratzinger non raramente ha invitato la chiesa a non perdere troppo tempo nell’occuparsi di se stessa, bensì di lasciarsi modellare dal suo Signore, che liberamente suscita imprevedibilmente luoghi e fattori di novità, quanto più essa è tesa a vivere la responsabilità dell’annuncio del Vangelo a tutte le genti.

Un passaggio della recente omelia tenuta alla Messa «Pro eligendo Pontifice», alla vigilia della sua nomina, lo ribadisce significativamente: «Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo. In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri (…). L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane».

Credo che a questa «santa inquietudine» il nuovo Papa Benedetto XVI saprà richiamare con forza, chiarezza e sollecitudine di Pastore tutta la Chiesa di Dio, proseguendo quel cammino di «nuova evangelizzazione» intrapreso da Giovanni Paolo II, «il Grande»; ma non raramente è già accaduto nella storia della Chiesa che l’opera di «un grande» sia stata custodita e portata ad ulteriore sviluppo da «un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore».