Vita Chiesa

Card. Betori: «Il nuovo Papa scelto nella comunione»

Iniziamo l’intervista facendogli i complimenti: «Eminenza, avete fatto un buon lavoro!». Il cardinale Giuseppe Betori sorride: «Lo Spirito Santo si fa sentire». È vero, ma ci vogliono anche le persone capaci di saperlo ascoltare. Incontriamo l’Arcivescovo di Firenze nel suo studio, affacciato sulla Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Sulla scrivania, la cartellina rossa del Conclave, quella su cui la scorsa settimana ha appoggiato la scheda per scrivere il suo voto. Appena tornato da Roma, e già pronto a ripartire: fra poco si metterà di nuovo in viaggio per essere presente alla Messa di inizio del ministero petrino di papa Francesco. Intanto però ci racconta come ha vissuto il Conclave, e ci aiuta a capire qualcosa di più del nuovo Papa.

Che emozione prova e che responsabilità avverte un Cardinale quando per la prima volta entra nella Cappella Sistina per eleggere il Papa?

«C’è un testo di Giovanni Paolo II che ha come titolo Trittico romano, una composizione poetica che nella seconda parte è dedicata proprio alla Sistina. All’interno di questa lettura teologico-estetica della Sistina egli pone anche l’evento del Conclave nella Sistina. In realtà la Sistina è nel suo complesso una sintesi mirabile di storia della Salvezza, dalla Creazione al Giudizio passando attraverso l’Antico e il Nuovo Patto di Alleanza. Ci si sente quindi innanzitutto dentro una storia che è la storia di Dio con gli uomini; partecipi di un passaggio che acquisisce il suo significato proprio alla luce di questa Storia della Salvezza. C’è una carica emotiva molto forte, senz’altro».

Si può dire, in un certo senso, che Michelangelo vi ha aiutato?

«Sì, certamente, anche se direi che la potenza di Michelangelo muove il cuore, ma dentro al cuore c’è un messaggio: che la storia degli uomini è la storia di Dio con gli uomini. C’è un contenuto di fede che non è solo fonte di emozioni ma è anche consapevolezza della presenza di Dio alle vicende umane, e nel concreto alle vicende della sua Chiesa».

Un Conclave così breve significa che c’era tra i cardinali un comune sentire già ben definito?

«Il Conclave non si fa prima del Conclave, si fa nel Conclave. Prima si cerca soprattutto di comprendere i bisogni della Chiesa e del mondo. Su questo si fermano i colloqui delle Congregazioni generali che precedono il Conclave. È alla luce di queste esigenze che poi si cerca di comprendere chi è la persona che il Signore vuole che si faccia carico di queste attese. Quel che è difficile comprendere per chi sta fuori è che nel Conclave non si ragiona secondo parti contrapposte».

Quindi una lettura secondo le categorie della politica, come spesso si cerca di fare, è fuorviante?

«La lettura politica del Conclave è la più lontana dalla realtà. Non si è divisi, né si va alla ricerca di un compromesso come si fa in un qualsiasi ambito politico. Si è tutti alla ricerca di un’espressione di comunione che non annulli l’apporto di ciascuno e valorizzi, al contrario, l’esperienza e l’orizzonte di tutti. Il cammino della comunione è un cammino per accrescimento, non per divisioni».

Quindi non ci sono vincitori e sconfitti?

«No, assolutamente. Questo modello comunionale con cui si giunge al consenso non è la vittoria di una parte sull’altra ma è la condivisione da parte di tutti di un cammino in cui si vede meglio interpretato il bene della Chiesa e del mondo».

Questo è il Papa dei primati: primo gesuita e primo latino-americano a diventare Papa, ma anche il primo a chiamarsi Francesco. Come valuta questi tre primati?

«Al primo dato non darei troppa sottolineatura: ci sono stati diversi papi appartenenti a ordini e istituti religiosi nella vita della Chiesa, e si può dire che solo per un caso non era mai capitato prima a un gesuita. Non c’era un divieto che è stato superato. Alcuni ordini religiosi hanno avuto un loro membro vescovo di Roma, altri no: questa volta è toccato a un gesuita, anche se il volto con cui ci appariva era piuttosto quello dell’Arcivescovo di Buenos Aires. E qui invece è interessante notare che con la scelta dell’Arcivescovo di una diocesi latino-americana viene esaltata ancor più la cattolicità della Chiesa, nel suo abbracciare popoli di ogni dove. Anche se bisogna sempre ricordare che non si va a scegliere un “supervescovo” ma si va a scegliere il vescovo di Roma: lo si va a prendere da tutte le Chiese del mondo, in vista del suo ruolo di garante della fede e della comunione per tutti, ma lo si sceglie perché sia il vescovo di Roma. Quindi questa radice latino-americana indica l’ampiezza degli orizzonti della Chiesa ma nulla toglie, come egli stesso continua a sottolineare, al fatto che la sua identità di Papa è radicata nel ministero che egli svolge per la Chiesa di Roma».

Sul nome Francesco il Papa stesso ho tolto ogni dubbio, se mai ci fosse stato (qualcuno poteva ad esempio pensare a Francesco Saverio, santo gesuita): il riferimento è al Santo di Assisi. Nel concreto cosa significherà?

«L’origine della scelta, come lui stesso ha riferito, è un dialogo con il cardinale Hummes avvenuto durante le votazioni del Conclave: quindi non è qualcosa di troppo progettato, quanto piuttosto una sensibilità ai valori francescani. Quindi alla centralità di Cristo, come lui stesso ha ribadito, ma il Cristo povero, il Cristo che crea la fraternità e la pace. Si potrà dire che è solo un elemento simbolico ma nel linguaggio, e ancor più nel linguaggio della Chiesa, la dimensione simbolica ha uno spessore profondo di realtà, non è un semplice rivestimento».

L’attenzione ai poveri appare, fin dalle prime parole, una sottolineatura forte di questo pontificato. Nell’incontro con i giornalisti in Aula Paolo VI ha detto di desiderare una Chiesa povera per i poveri. Sarà questo l’intento principale del suo pontificato?

«Credo che qui si rispecchia l’esperienza di un pastore che viene da una parte del mondo che è profondamente toccata dalla sofferenza della povertà, una povertà largamente diffusa. Ci aiuterà quindi a mettere davvero i poveri al centro: un tema non a caso molto vivo anche nell’ultimo Sinodo dei Vescovi, che faceva della centralità dei poveri uno dei segni emblematici della evangelizzazione».

C’è in questo una continuità con la Caritas in Veritate, l’ultima enciclica che ci ha lasciato papa Benedetto, che parla molto di povertà e temi sociali?

«Ogni papa è diverso dall’altro, ma tutti i papi stanno in continuità tra di loro. Direi che la grandezza della Chiesa e la perenne novità dello Spirito Santo ci permettono di non avere mai un papa copia del suo predecessore, ma sempre una figura originale. Questo però in una profonda continuità che è l’identità stessa della Chiesa».

Tra le cose che hanno subito colpito nel suo primo intervento anche il fare sempre riferimento a se stesso come Vescovo di Roma. Perché a sua giudizio questa insistenza?

«Anche qui non c’è nulla di nuovo, e allo stesso tempo però c’è un parlare in forma del tutto personale di questa identità del Papa che in quanto vescovo di Roma presiede alla carità delle Chiese. È interessante notare questo: è a partire dalla sottolineatura del concreto servizio che egli deve rendere alla Chiesa di Roma che si mostra anche il suo servizio a tutta la Chiesa. Credo che sarà molto apprezzato questo a livello ecumenico, soprattutto dalle Chiese orientali, ma anche un modo per far intendere che l’attesa di un esercizio del ministero petrino in una forma comunionale avrà probabilmente delle indicazioni più precise».

C’è anche, nelle prime parole del Papa, la sottolineatura del legame del vescovo con il suo popolo…

«Questo è un aspetto interessante delle prime parole di papa Francesco, e dei suoi gesti: il rapporto con i “fratelli cardinali” e con i fedeli, con il popolo di Dio: “vescovo e popolo”. È molto interessante, c’è in questo un richiamo agostiniano: non ci può essere popolo di Dio senza vescovo, senza successore degli Apostoli, e di Pietro in particolare nel suo caso, ma non ci può essere neppure il successore degli Apostoli senza il popolo che costituisce il corpo di Cristo che è la Chiesa. Questa simbiosi tra vescovo e popolo mi sembra che sia un indizio molto interessante del modo con cui egli intende vivere il suo ministero, e lo sta mostrando anche nei suoi gesti di vicinanza fisica alle persone»

Alcuni gesti hanno colpito molto i mass media, anche se a volte vengono riportati come semplici curiosità. Invece hanno significati precisi?

«C’è una ecclesiologia che si manifesta dietro questi segnali, che poi è l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II».

Papa Francesco ha guardato subito alla Toscana: la scelta dei frati della Verna per servire la Messa di inizio del pontificato è stata una bella sorpresa. E poi lo attendiamo a Firenze.

«La scelta del nome Francesco ha orientato da subito l’attenzione del Papa ai luoghi di Francesco, e tra questi luoghi un posto particolare è riservato certamente alla Toscana. È un bel segno per noi la chiamata dei frati della Verna a svolgere il servizio liturgico nella Messa di inizio del ministero petrino. Io poi ho avuto modo di ricordargli l’invito che già la Conferenza episcopale italiana ha fatto al Papa per la presenza a Firenze, nel novembre 2015, al Convegno ecclesiale nazionale. Mi auguro che nulla ostacoli questo desiderio, dando continuità alla presenza del Papa a questo appuntamento importante per la Chiesa italiana».