Vita Chiesa

Chiesa in rete, navigare per incontrare

“Comprendere e conoscere” ed “educare e accompagnare”. Sono questi i “due compiti” che mons. Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, ha affidato ai partecipanti al convegno nazionale, promosso dall’Ufficio per le comunicazioni sociali e dal Servizio informatico della Cei, sul tema “Chiesa in rete 2.0” (Roma, 19-20 gennaio). “L’esigenza della competenza – ha spiegato mons. Crociata – è di primaria grandezza”. Occorre “aggiornarsi in un mondo in costante crescita”. Al tempo stesso, ha aggiunto, è necessario “educare e accompagnare nella Chiesa, oltre che nella società tutta, per essere presenti e vivere da credenti” l’esperienza del Web. A conclusione del convegno, abbiamo rivolto alcune domande a don Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio Cei per le comunicazioni sociali.

Quali le conclusioni del convegno sulla “Chiesa in rete 2.0”?

“Una prima conclusione è che non c’è opposizione tra virtuale e reale. Il contrario del virtuale non è il reale ma piuttosto ciò che è attuale. Il virtuale rappresenta dunque una forma potenziale, nel senso che può lievitare fino a stabilire un legame sociale. Questa, dunque, è la prima acquisizione: non bisogna scegliere tra virtuale e reale ma semmai integrare. Sono due esperienze che, in qualche modo, si completano a vicenda; l’importante è che dalle connessioni telematiche si giunga a delle relazioni compiute. A questo dato si aggancia una seconda conclusione: l’individualismo networkizzato (networked individualism, secondo la definizione del sociologo spagnolo Castells) dice che certamente la fruizione quotidiana di Internet è fatta da singoli individui ma paradossalmente questa produce relazioni. L’individualismo può essere superato attraverso una trama di socialità che è propria dei social network, come avviene con Facebook, dove più che lo scambio di semplici contenuti ci s’incontra personalmente. La terza conclusione è che, in ambito ecclesiale, bisogna curare l’identità, ma anche i linguaggi. Ancor prima di navigare occorre avere un’identità precisa e, per questo, riconoscibile. Questo vuol dire utilizzare tutti i linguaggi che la tecnologia oggi offre. La disanima dei siti presenti nelle diverse realtà ha mostrato una ricchezza impressionante di linguaggi. C’è una grande creatività diffusa: attualmente sono in Rete circa 12 mila siti cattolici. Questo dà la misura di quanta ricchezza ci sia”.

La Chiesa è presente nel Web con diverse iniziative: quali opportunità o sfide dal cosiddetto Web 2.0, dai social network, dal fenomeno Facebook?

“La Chiesa intende abitare il nuovo territorio virtuale. Nella Rete vogliamo «starci» e non «capitarci». La Rete è una scelta e non semplicemente un caso. Il virtuale rappresenta il luogo dove poter incontrare molte persone, in particolare i giovani. Una recente indagine del Censis attesta che è aumentato enormemente il numero di coloro che, al di sotto dei 35 anni, utilizzano quotidianamente Internet. Prescindere da Internet vorrebbe dire precludersi di dialogare con le generazioni più digitali”.

In che modo comunicare in maniera efficace il Vangelo nell’attuale ambiente virtuale?

“Non ci sono delle ricette infallibili. È importante avere una conoscenza dei linguaggi e, dunque, una competenza di ordine linguistico. Ma soprattutto bisogna essere delle persone che fanno della fede un criterio per interpretare la realtà. Quando si combinano competenza linguistica e sensibilità che nasce dalla fede, si ha la possibilità di navigare con disinvoltura nel mondo di Internet”.

Quali identità e relazioni per le comunità cristiane nell’era dei social network?“Le comunità sono impegnate a superare un’idea di sito inteso come semplice vetrina; sono impegnate a costruire dei luoghi di partecipazione in cui ci possa essere uno scambio. Ovviamente basato non su semplici e banali questioni ma su argomenti e domande che attengono al vissuto e alla profondità dell’animo umano”.

Come rapportarsi al “pluralismo di voci” che s’incontrano nella “Chiesa in rete”?

“Il pluralismo è a livello linguistico, mentre l’identità deve essere condivisa. Se manca l’identità, si rischia la Babele più che la comunicazione. Occorre, quindi, mettere insieme l’identità, che è data dalla comunanza di prospettiva, e la possibilità di linguaggi diversi, cioè di forme attraverso cui si comunica”.

Quali i prossimi appuntamenti in agenda?

“In futuro è prevista una seconda edizione di «Parabole mediatiche». Sarà un appuntamento in cui convergerà tutto il popolo delle comunicazioni sociali e della cultura; non una semplice ri-edizione beninteso, ma una sorta di aggiornamento, tenendo conto che siamo ormai al tempo del Web 2.0. Quasi un’era «geologica» rispetto a soli 7 anni fa”.

a cura di Vincenzo Corrado

La Chiesa ai tempi di web 2.0. Un «reale universo virtuale»

Il 16% delle 26 mila parrocchie italiane ha un proprio sito, e 7 su 10 hanno una connessione ad Internet. È quanto emerge da un’indagine condotta da Paolo Mancini e Rita Marchetti dell’Università di Perugia e commissionata dall’Associazione Webcattolici. L’indagine, ha spiegato don Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, intervenendo al Convegno «Chiesa in rete» – promosso dall’Ucs e dal Servizio Informatico della Cei – è una dimostrazione dell’«approccio positivo e creativo» che la Chiesa ha nei confronti di Internet, oltre che una riprova del «valore del territorio», «che oggi oltre alla accezione geografica assume una sembianza diversa: quella del “territorio virtuale”».

La ricerca ha coinvolto 1.338 parrocchie italiane: quasi l’86% di esse possiede un computer; circa il 62% delle comunità parrocchiali ha un indirizzo di posta elettronica. Tutto ciò, ha spiegato Mancini, nonostante l’età piuttosto elevata dei parroci, che nel 44.9% dei casi ha oltre 60 anni: «più del 50% dei parroci utilizza almeno una volta al giorno il computer». Quanto alla dislocazione geografica non esistono sproporzioni tra Nord, Centro e Sud. A parere dell’esperto, «la Chiesa rispetto ad Internet è in una posizione avanzata» anche «per la consapevolezza di trovarsi di fronte ad uno strumento di comunicazione diverso dagli altri media». Internet, infatti, «non è solo uno strumento di comunicazione, ma anche di organizzazione, che contrariamente ai precedenti media consente un’azione di evangelizzazione». Due le tipologie principali dei siti parrocchiali, rivela la ricerca di Perugia: il «sito informativo», di carattere «turistico-identitario», destinato «non ai fedeli ma ai visitatori», dove dominano informazioni su bellezze e ricchezze artistiche e architettoniche, e il «sito comunitario», finalizzato a «costruire una comunità». Un’altra ricerca, questa volta incentrata sui siti diocesani, è stata invece presentata da Leo Spadaro, che ne ha recensiti 209 attivi. Qui l’aspetto prevalente è quello «istituzionale», incentrato sul vescovo. Ma le possibilità di sviluppo, come hanno mostrato alcune esperienze concrete, sono notevoli.

Il convegno di Roma è stata perciò l’occasione, come ha osservato in apertura dei lavori don  Pompili, per «rifare il punto» sulle nuove tecnologie, sulla scia dei convegni di Assisi (2000), Roma (2001) e Milano (2002). Oggi, ha spiegato, «siamo di nuovo insieme perché siamo ormai al tempo del Web 2.0», ossia «siamo giunti alla realizzazione di un “reale universo virtuale”, non necessariamente alternativo al mondo fisico reale. Era dunque tempo di rivedersi, anche se solo dopo pochi anni, ma quasi un’era geologica in questo ambito». «Noi non siamo dei “digital native”, come tutti i bambini che sono nati dopo la diffusione di Internet», ha proseguito don Pompili, «Noi siamo probabilmente le ultime generazioni dell’era Gutemberg – appunto degli “immigranti digitali” – perché non siamo nati in una società multischermo e non siamo cresciuti, alimentandoci a questa nuova modalità di “fare esperienza”, che plasma l’intelligenza e orienta la stessa dinamica affettivo-relazionale».

«Trasformare il semplice contatto in una forma di vera partecipazione e promuovere per questa via una partecipazione buona». È questa «la sfida che la Chiesa in Rete oggi deve far propria», secondo Adriano Fabris, docente di filosofia morale dell’Università di Pisa, che lunedì mattina ha preso parte alla tavola rotonda introduttiva. Richiamando i dati di un’indagine effettuata dall’Università di Pisa, Fabris ha rilevato che «sono tre, sostanzialmente, i modelli di presenza delle esperienze religiose sul Web sperimentati soprattutto fino ad oggi». Il primo è il «modello della vetrina: l’uso di Internet per rendere note le proprie iniziative». Il secondo è il «modello del contatto: l’uso della Rete per tenere in collegamento gli aderenti a una comunità religiosa». Il terzo è il «modello della sacralizzazione del Web: adottato per fondare nuovi culti, per lo più costruiti a immagine e somiglianza delle religioni storiche». Per Fabris bisogna «tenere sempre ben distinti, nell’esperienza religiosa in Rete delle nostre comunità, ciò che è virtuale e ciò che è reale». Ancora una volta, ha concluso, «la Rete accresce le nostre opportunità, ma non le sostituisce». Di «ambivalenza delle nuove tecnologie nella costruzione dei rapporti sociali ha parlato Giuseppe Mazza, docente di teologia fondamentale e di comunicazioni sociali alla «Gregoriana», che ha messo in guardia sul fatto che «le relazioni mediate da computer risultano spesso anomiche» e quest’assenza di regole, «fatte salve le dovute eccezioni», comporta «instabilità, interazioni scarse, se non distorte, tra identità fittizie e ambiguità». La socialità, pertanto, «ne risulta ridotta». Solo se c’è continuità tra «virtuale» e «reale», ha osservato Stefano Martelli, docente all’Università di Bologna, le nuove forme di socialità in rete, oggi tanto diffuse, si consolidano e diventano significative per le persone e rilevanti per la società». Sulle potenzialità di web 2.0 per i siti diocesani si è infine soffermato Daniel Arasa, docente di comunicazione digitale, mettendo in guardia però dal dar vita a forum e blog se poi non si ha la capacità di gestirli bene.

C.T.

Diocesi in rete, la Toscana c’è

Il convegno «Chiesa in rete 2.0» è stata presentata una ricerca sui siti diocesani, curata da Leo Spadaro. Ne sono stati recensiti ben 205 e una decina rislutavano nei mesi di novembre e dicembre 2008 ancora in costruzione. Sette le dimensioni considerate da un focus group di utenti: quella istituzionale (che poi è la prevalente), poi, informazione, servizio, territorio, riflessione, interattività e dialogo, convergenza dei media. Nella tabella sopra lo «stato di salute» complessivo di questi siti, risultato in crescita ma ancora un po’ basso, specie sotto il profilo dell’interattività e dell’apertura al territorio. Il dato positivo è che tutti quelli aperti o rinnovati nell’ultimo anno sono di buona qualità. In Toscana tutte le diocesi, hanno una presenza in rete, tranne quella di Pistoia che sta ristrutturando il proprio sito (ma è il nuovo è stato messo on line il 21 gennaio!). Alcune diocesi (Firenze, Grosseto, Massa Carrara-Pontremoli, Monte Oliveto, e San Miniato) utilizzano la piattaforma comune della Cei, altre sistemi informatici diversi. Generalmente buona la frequenza di aggiornamento dei dati, mentre sul piano della grafica e dell’accessibilità le differenze sono davvero notevoli.

AREZZO-CORTONA-SANSEPOLCROFIESOLEFIRENZEGROSSETOLIVORNOLUCCAMASSA CARRARA-PONTREMOLIMASSA MARITTIMA-PIOMBINOMONTE OLIVETO MAGGIOREMONTEPULCIANOPESCIAPISA

PISTOIA (nuovo sito aperto il 21 gennaio 2008!!!)

PITIGLIANO

SAN MINIATO

VOLTERRA