Vita Chiesa

«Confessarsi? Non è solo vuotare il sacco dei peccati…»

Don Maurizio Volpi è uno dei sacerdoti che nel Mercoledì delle Ceneri hanno ricevuto da Papa Francesco il mandato come «Missionari della Misericordia» per il Giubileo. Preti chiamati ad essere «un segno della sollecitudine materna della Chiesa per il Popolo di Dio»: a loro è data l’autorità di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede Apostolica. Ma soprattutto devono essere «segno vivo di come il Padre accoglie quanti sono in ricerca del suo perdono».

Don Maurizio è parroco di Coiano, una bella pieve lungo la via Francigena, vicino a Castelfiorentino, in diocesi di Volterra. Ha voluto rispondere a questa chiamata del Papa perché sentiva il bisogno, dice, di «sintonizzarsi» con la misericordia. Che non è «buonismo»: la misericordia, spiega, «sa distinguere sempre  il bene dal male, ma  non fa l’errore di dividere tra buoni e cattivi».

Nella Bolla di indizione del Giubileo, Papa Francesco scrive: «La Quaresima di questo Anno Giubilare sia vissuta più intensamente come momento forte per celebrare e sperimentare la misericordia di Dio». Una delle strade è sicuramente il sacramento della Riconciliazione. Quale indicazione si sentirebbe di dare alle persone, per vivere la confessione come momento in cui celebrare e sperimentare la misericordia di Dio?

«La Riconciliazione, tra tutti i sacramenti di certo è quello più difficile da celebrare e da vivere, soprattutto  per via di una certa predicazione che ha sottolineato più il castigo del peccato che la Misericordia di Dio. E così il confessionale, da luogo di accoglienza del peccatore,  spesso s’è trasformato nel banco d’un tribunale. Chi si accosta al sacramento del perdono, la prima cosa che deve “confessare” non sono i propri peccati, ma l’Amore preveniente del Padre. La confessione dei peccati è una parte sostanziale nella celebrazione del sacramento, ma, appunto, è solo una parte. Anzitutto io devo ritrovare nel cuore l’amore di Dio che avevo perso e rendermi conto che mi corrisponde, che fa parte di me. In una parola: mi ritrovo.  Poi scopro anche i vuoti, le mancanze, cioè la vita vissuta in assenza di Dio e quindi mi rendo conto dei peccati. Che non saranno più solo un “elenco” da dire al prete (come purtroppo spesso accade), ma diventeranno il “luogo” in cui sperimento l’abbraccio del Padre, come accade al figlio minore nella più celebre tra le parabole della Misericordia. Solo questo amore che mi viene incontro per dirmi che sono ancora amato nonostante tutto,  mi fa sentire un peccatore perdonato. La sorpresa di scoprirmi così, poi, è la spinta più potente  per rinunciare al male e cominciare  una vita nuova. Ed è proprio l’amore con il quale il Signore mi raggiunge, la forza che in futuro mi aiuterà a vincere il peccato.  Se no, la confessione diventa solo un “vuotare il sacco della spazzatura”, per rifarlo di nuovo quando è pieno. E poi ancora di nuovo… senza nessun cambiamento per la mia vita».

Anche i sacerdoti sono invitati dal Papa ad essere «un vero segno della misericordia del Padre». Come si traduce, in pratica, questa indicazione?

«La parola chiave mi pare che possa essere “accoglienza”. Francesco lo ha sottolineato più volte il 9 febbraio quando  ha incontrato gli oltre settecento Missionari della Misericordia nella Sala Regia e lo ha ribadito anche il giorno dopo nella Messa delle Ceneri. Tra l’altro ci ha raccomandato, nell’incontro sacramentale con i penitenti, “di capire non solo il linguaggio della parola, ma anche quello dei gesti”. Cioè di praticare un’accoglienza che sappia leggere pure il “non detto” e sappia comprendere il desiderio profondo di conversione, anche quando questo non riesce a tradursi in parole. Con la consapevolezza che tutto ciò che facciamo, lo facciamo in nome di Cristo:  “entrando nel confessionale, ricordiamoci sempre che è Cristo che accoglie, è Cristo che ascolta, è Cristo che perdona, è Cristo che dona pace”. Noi siamo strumenti della sua Misericordia, invitati ad assumere lo stile del Buon Pastore. Ce lo ricorda ancora il Papa nella Bolla di indizione Misericordiae vultus: “Non è con la clava del giudizio che riusciremo a riportare la pecorella smarrita all’ovile, ma con la santità di vita che è principio di rinnovamento e di riforma nella Chiesa. La santità si nutre di amore e sa portare su di sé il peso di chi è più debole. Un missionario della misericordia porta sulle proprie spalle il peccatore, e lo consola con la forza della compassione”.  In questo senso siamo tutti chiamati ad essere portatori della misericordia, “portandoci” reciprocamente sulle spalle. San Paolo lo raccomandava ai Galati: “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2). E la legge di Cristo non è altro che la sua misericordia».

Lei è uno dei sacerdoti che in questo Giubileo hanno ricevuto il mandato di Missionari della Misericordia. Come ha deciso di rispondere a questo appello del Papa? E come porterà avanti questa sua missione?

«Ha detto bene:  è la risposta a una chiamata. Si comincia con quella fondamentale, che è la chiamata alla vita e si continua a rispondere accogliendo tutte le altre che via via si innestano nella prima. Io risponderò a questo appello del Papa prima di tutto come ad un invito alla mia personale conversione. Se, tramite questo mandato, il Signore mi chiede di collaborare alla sua opera di salvezza, il primo a doversi “sintonizzare” sulle frequenze della Misericordia sono proprio io. Certe volte, infatti, può capitare di perdere il “canale” giusto e di produrre solo un generico e incomprensibile “fruscìo” di belle parole dette anche bene, ma sostanzialmente sterili. Alle quali, in genere, seguono gesti formali e senz’anima. A questo proposito credo che, per promuovere davvero la “nuova evangelizzazione”, sia necessario recuperare anche una certa semplicità nel linguaggio teologico (che non vuol dire approssimazione e superficialità), perché  tutti possano comprendere e accogliere la misericordia come un dono che feconda e sostiene la vita concreta di ogni giorno».

L’ansia di Papa Francesco sembra essere rivolta soprattutto a quelle persone «che si trovano lontane dalla grazia di Dio per la loro condotta di vita». Per loro però l’invito ad accogliere la Misericordia di Dio è anche un invito alla conversione di vita: la misericordia verso il peccatore non esclude la condanna del peccato…

«Certo, la misericordia non esclude mai la condanna del peccato;  si potrebbe dire, invece, che la rafforza. Per ognuno di noi il punto di riferimento è Gesù: per rispondere a tutti i nostri quesiti, dobbiamo sempre confrontarci con lui.  Leggendo i vangeli veniamo a sapere che egli frequenta spesso gente poco raccomandabile secondo una certa  mentalità  perbenista e benpensante: peccatori, esattori delle tasse, prostitute, ammalati gravi… Tutte persone da evitare per non trasgredire la Legge. Ma Gesù prima dell’osservanza della Legge ha sempre messo la pratica della misericordia. Una pratica che non l’ha mai portato a giustificare il peccato; anzi, proprio perché detestava il peccato, frequentava così tanto i peccatori. E questo è più che normale, com’è normale che un medico incontri continuamente gli ammalati. Ed è evidente che lo fa per un unico scopo: sconfiggere il male e guarire l’ammalato. Tra l’altro, Gesù stesso si è servito di questo paragone per rispondere a quelli che lo criticavano (cf. Mc 2,17). A volte, purtroppo, si confonde la Misericordia col “buonismo”. E invece, è tutt’altro che “buonismo”. L’amore per il peccatore presuppone anche la capacità d’indignarsi di fronte al grido di dolore che sale dall’umanità ferita, umiliata e calpestata. Si potrebbe dire che questa “sacrosanta collera” è la garanzia stessa della misericordia, che diventa grido profetico contro la sopraffazione e l’ingiustizia talvolta mascherata dietro un culto a Dio falso e ipocrita. Direbbe Gesù, citando il profeta Osea: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9,13). Insomma, la misericordia sa distinguere sempre  il bene dal male, ma  non fa l’errore di dividere tra buoni e cattivi. E sa operare la verità nella carità (cf. Ef 4,15)».