Vita Chiesa

Don Barsotti racconta il cardinale Dalla Costa

di Riccardo BigiC’è chi dice che a Firenze in quegli anni di grande fermento, dopo il passaggio della Seconda Guerra Mondiale, operassero tre santi che incarnavano le tre virtù teologali: fede, speranza, carità. E se don Facibeni, che si impegnava per dare una famiglia agli orfani di guerra, rappresentava la carità; se Giorgio La Pira, con la sua politica improntata ai grandi ideali, era l’uomo della speranza, il cardinale Elia Dalla Costa impersonava senza dubbio la fede. «È proprio così – annuisce don Divo Barsotti – Dalla Costa è l’uomo della fede: una fede ferma, solida, rigorosa».Don Barsotti ci accoglie nella sua cella a casa San Sergio, sulle colline di Settignano, l’eremo dove dal 1955 vive con la comunità dei Figli di Dio di cui è il fondatore. Dietro le sue spalle, la finestra mostra uno spettacolare panorama di Firenze. La sua mente, lucida e vivace nonostante i quasi novant’anni di età, mescola memorie, considerazioni, pensieri. Ed è ben felice di ricordare il cardinale che lo accolse a Firenze. «Ognuno di noi – dice – è una comunità: si porta dentro tutte le persone che ha incontrato nella sua vita, e le riunisce in una sintesi nuova». E la «comunità interiore» di don Divo è davvero ricca di nomi ed episodi.

Come conobbe Dalla Costa?

«La prima volta lo vidi nel 1930, quando venne a San Miniato. Ebbi l’impressione di un attaccapanni: magrissimo, alto. Nella sua persona, anche nei tratti del viso, esprimeva quell’essenzialità che era la nota dominante del suo carattere. Ma il vero incontro fu alcuni anni più tardi, a Firenze. Fu invitato all’Opera Ritiri, di cui io ero assistente. Non so perché, ebbe subito di me una grande stima. Si fece di me, credo, un’opinione non del tutto vera, che conservò fino alla fine. Gli sembrò forse che io fossi un uomo di preghiera: e lo sono, ma certo in modo diverso dal suo».

Quali erano le caratteristiche della spiritualità di Dalla Costa?

«Era una spiritualità sobria, per niente incline ai sentimentalismi. Probabilmente era, tra i vescovi dell’epoca, uno di quelli che praticavano di più la lettura delle Sacre Scritture, anche se allora non c’erano gli strumenti che abbiamo oggi per la lettura della Bibbia. Ma, più che alla teologia spirituale, era improntato alla teologia morale. Era l’uomo della legge, rigoroso, attento osservatore di tutti i precetti, e così voleva che fossero i suoi preti. Anche nella liturgia, celebrava sempre con l’occhio al messale, per non sbagliare un gesto o una parola. In questo si ritrova, secondo me, molto della pietà veneta: quella pietà da cui è uscita una figura come Santa Bertilla, che si è fatta santa non conoscendo altro che il catechismo. Pregava molto, ma non aveva forme devozionali particolari. Una volta venne a Soffiano, dove stavo predicando gli esercizi. Era anziano, soffriva. A un certo punto si avvicinò e mi disse, amareggiato: “Preghi per me, perché io non so più pregare”».

Vi siete incontrati altre volte?

«Gli facevo visita spesso: qualche volta mi tratteneva e mi faceva sedere, cosa che non faceva quasi mai con i suoi preti: come se con me, che non ero un suo diocesano, potesse aprirsi di più. Si parlava, a volte, dei cambiamenti all’interno della Chiesa, che lui viveva con diffidenza. Due volte è venuto a trovarmi a Settignano, di nascosto perfino al suo segretario. La prima volta non sapeva la strada, e non voleva fermarsi a chiedere informazioni al parroco: non voleva che i suoi preti potessero pensare che nei miei confronti avesse un trattamento diverso. Era attento, rispettosissimo verso tutti ma non amava gli incontri pubblici, rifuggiva i fasti, le cerimonie. Questa sua sobrietà d’altra parte ci dice anche la grandezza dell’uomo, tutto teso alla salvezza delle anime che gli erano state affidate. Sentiva moltissimo la responsabilità di essere vescovo, sia nei confronti dei sacerdoti che della città. Si può dire davvero che abbia consumato la vita per Firenze».

Un uomo sobrio e riservato, ma capace anche di gesti clamorosi: come quello, famoso, di far chiudere le finestre del palazzo arcivescovile al passaggio di Hitler.

«La fermezza faceva parte del suo carattere: non era disposto a rinunciare ai suoi principi e la decisione di andarsene da Firenze, quel giorno, ne è una dimostrazione. Nei confronti della Chiesa però era assolutamente obbediente. Ricordo che una volta mi chiese cosa pensavo della decisione di estendere il precetto domenicale alla messa prefestiva del sabato: si capiva che lui aveva delle perplessità, ma non le avrebbe mai espresse, non avrebbe mai criticato un pronunciamento della Chiesa».

Si dice che sia stato proprio Dalla Costa a spingere La Pira all’impegno politico, come parlamentare e poi come sindaco. È così?

«In La Pira, Dalla Costa riponeva una fiducia enorme, diceva sempre che se si vuole conoscere il Vangelo, basta guardare La Pira. E La Pira, da parte sua, non faceva niente senza aver informato e consultato il Cardinale. Personalmente, a La Pira sono molto legato: fu lui a farmi venire a Firenze, fu lui a parlare di me a Dalla Costa. Avrebbe voluto anche che andassi con lui nel famoso viaggio a Mosca, ma la Santa Sede me lo impedì. Gli anni di Dalla Costa e di La Pira non devono essere dimenticati, per Firenze e per la Chiesa sono stati bei tempi davvero».

Quarantadue anni dalla morteIl cardinale Elia Dalla Costa moriva 42 anni fa, il 22 dicembre 1961. Nel 1981 fu aperto dal cardinale Giovanni Benelli il processo di beatificazione; la fase diocesana è stata dichiarata conclusa dal cardinale Silvano Piovanelli nel 1988. Sono stati ascoltati 85 testimoni, raccolti tutti gli scritti editi e inediti di Dalla Costa e i documenti che permettono di ricostruirne la biografia. La seconda fase del processo, quella valutativa e decisionale, è attualmente in corso in Vaticano presso la Congregazione per le Cause dei Santi.